Pavlovian slaves

nostra979
00domenica 16 gennaio 2011 14:33
Premetto che il racconto non l'ho creato io..ma è di una tale bellezza (almeno per me) che mi sembra giusto proporlo dato che non l'ho trovato qui.

Questo e una buona quantità di altri racconti li potete trovare nel sito sites.google.com/site/storieshhard/

Pavlovian slaves - Parte Prima

Il racconto (libera traduzione modificata ed ampliata dell'omonimo contenuto in:
www.asstr.org/files/Collections/Eli.The.Bearded/stories/bond/pavlovian_sla... )
‘Quando aprii gli occhi la mia visione era distorta, mi sentivo strano, con la testa 'ovattata' e non riuscivo a pensare con chiarezza.
Ricordavo vagamente un colloquio con una donna, ma non ricordavo chi quella donna fosse, né capivo dove mi trovassi o come avessi fatto a trovarmi dov'ero.
D'un tratto avvertii una mano che mi scuoteva la spalla: "Ti stai svegliando?" una voce femminile mi chiese, "Su dai, svegliati".
I miei occhi cominciarono a mettere meglio a fuoco e vidi Aldina che si stava rivolgendo a me.
Tentai di alzarmi ma qualcosa mi tratteneva e non riuscivo a muovermi.
"Bene - ella disse - finalmente sei sveglio: ti ho drogato, per cui può darsi che ti senta un po' confuso".
Poi lasciò la stanza ed io richiusi gli occhi cercando di pensare: "Forse sto sognando" pensai, scuotendo la testa.
Incominciai quindi a guardarmi intorno: ero seminudo e le mie braccia, i miei polsi e le mie caviglie erano stati assicurati tramite robuste bande di velcro ad una sedia da dentista.
Ricordai vagamente di essermi recato a casa di Aldina, che conoscevo da tempo senza tuttavia andare oltre il semplice saluto: ella mi aveva richiesto un consulto, chiedendomi di poterci incontrare a casa sua, anziché nel mio studio, perché l'argomento era piuttosto riservato e lei non voleva che nessuno la vedesse entrare da me.
Rientrò tenendo in mano una specie di collare sottile e cromato. "Cosa diavolo hai intenzione di fare?" le chiesi, pensando che si trattasse di una sorta di strano e non divertente gioco.
"Era ora che ci svegliassimo completamente!" Aldina commentò senza rispondermi.
"Liberami - dissi - cosa sta succedendo?".
"Stai buono - rispose - e ben presto saprai tutto". Premette poi un pedale alla base della sedia facendola reclinare e si accinse ad allacciarmi il collare.
Io tentai di fermarla ma - immobilizzato com'ero - non potevo
fare nulla: "Senti - le dissi - questa storia è già andata avanti troppo: apprezzo il divertimento ma adesso è ora ...".
Aldina fece un sorriso di commiserazione ed, afferrandomi con decisione per i testicoli, mi interruppe secca:
"Non è un gioco, e tu farai quello che ti dico io".
In quel momento considerii quanto fosse bella: dimostrava ventisette o ventotto anni, la sua non altissima statura metteva in risalto il corpo ben formato, avvolto in un abito azzurro corto e scollato ed impreziosito dalle eleganti scarpe bianche a tacco alto con calze a rete dello stesso colore.
I lunghi capelli castani, raccolti all'indietro in una crocchia sopra il capo, lasciavano sfuggire due sottili ciocche che incorniciavano
sia le minuscole orecchie, agghindate da un paio di lunghi pendenti, sia la fronte alta, sotto la quale due piccoli occhi scuri ed appuntiti mi guardavano con curiosità.
Il naso era piccolo e graziosamente rialzato, le labbra erano crudelmente sottili.
La vista del suo corpo sinuoso e della sua provocante bellezza, nonostante le circostanze, mi stava eccitando: poi lei strizzò con forza i miei testicoli, facendo sparire ogni mio pensiero.
Ella assicurò dunque lo strano oggetto intorno al mio collo, facendolo chiudere con uno scatto metallico ed un breve suono elettronico, "Così va meglio" disse, facendo quindi rialzare la sedia in modo che io potessi vedermi riflesso nello specchio appeso di fronte a me.
"Voglio che ti dia un'occhiata" proseguì, togliendone il drappo che lo copriva, ed io mi vidi con il collare, da cui una piccolo diodo luminoso lampeggiava, mentre sul mio torace era stata indelebilmente tatuata la scritta: "Schiavo della dea Aldina".
"Bene - ella mi disse - cosa ne pensi?".
"Penso che è una cosa pazzesca e ridicola" risposi.
Di nuovo ella sorrise di commiserazione ed, avvicinatasi a me, mi diede uno schiaffo di una violenza tale da farmi sentire rintronato; feci per dire qualcosa ma ella mi percosse nuovamente, forte, per tre o quattro volte, rimasi quindi sbigottito e silenzioso, la mia rabbia completamente domata.
"Non c'è proprio nulla di ridicolo - disse Aldina - stai molto bene così. Non è vero?"; io non risposi ed ella mi colpì nuovamente, facendomi gridare di rabbia e di dolore.
"Ti piace il tuo nuovo aspetto?" chiese nuovamente.
"Si, certo!" stavolta prontamente risposi, temendo la sua reazione.
"Dillo" comandò.
"Così sto proprio bene" risposi.
"Bravo!" mi disse sorridendo.
Poi si piegò su di me e mi baciò con ardore, esplorandomi la bocca con la lingua, mentre con le dita mi accarezzava i capezzoli.
Il mio pene subito si rizzò: non volevo mostrarle il mio eccitamento ma non potevo farci nulla ed Aldina, vedendo il mio sconforto, nuovamente sorrise.
Poi reclinò la sedia fino a farmi sfiorare il pavimento con il capo e slacciò il mio polso destro, in modo che potessi raggiungere il mio corpo, senza tuttavia arrivare agli altri lacci per liberarmi.
"Adesso voglio che pensi a me e ti masturbi" mi disse.
"Cosa?" esclamai incredulo,
Senza preavviso ella premette una suola sulla mia faccia schiacciandomi fino a soffocarmi: "Ti ho già detto che tu farai quello che io ti dico senza discutere. Chiaro?" mi aggredì.
"Si" respirai, quando sollevò la scarpa.
"Allora incomincia" ordinò.
"Molto bene" poi aggiunse, vedendo che io incominciavo ad accarezzarmi nelle parti intime quindi, sfilandosi una delle bianche calzature stese il piedino ben tornito ed incominciò a sfiorarmi delicatamente le labbra con le dita inguainate.
Vedevo trasparire le piccole unghie di colore acceso e senza potermi
controllare sentivo avvicinarsi l'orgasmo.
"Aprì la bocca" Aldina comandò, e non appena lo feci ella infilò le profumate dita fra le mie labbra.
"Ora succhia" mi disse, mentre le agitava delicatamente.
Ubbidendole fui invaso da un'ondata di piacere e - chiusi gli occhi - ebbi un violento orgasmo: senza più ragionare continuavo a succhiarle avidamente le dita, mentre dal pene mi fuoriusciva una colata calda.
Aldina rimosse lentamente il piede dalla mia bocca e, ridacchiando, intinse le dita nei miei umori, le asciugò poi sul mio viso porgendole infine nuovamente alle mie labbra perché venissero completamente ripulite: io la assecondai imbarazzato ed umiliato, ancora scosso dall'intenso piacere che avevo provato.
Da un tavolino ella prese poi una siringa ed, infilandomela nel braccio mentre la guardavo impaurito, mi rassicurò: "Questa non ti farà male: dormirai solo un po', ed al tuo risveglio ti spiegherò tutto"; caddi in un sonno profondo mentre ancora i suoi tacchi si allontanavano.
Ebbi un sogno confuso in cui mi rivedevo entrare nell'appartamento di Aldina che mi faceva accomodare in salotto: chiacchieravamo un poco e, mentre stavo estraendo i documenti dalla valigetta, lei si recava in
cucina a prendere due bicchieri, porgendomene uno sorridendo.
Poi la sentii che mi parlava: "Bene, stai ritornando" ed aperti gli occhi la vidi davvero seduta davanti a me:
si era cambiata indossando un abito ancora più succinto del precedente e degli alti sandali senza calze che non la rendevano certo meno eccitante.
"Adesso è il tuo turno per fare domande, se vuoi" mi disse.
"Perché sono qui?" chiesi.
"Perché ti ho scelto per un esperimento" rispose.
"Un esperimento?" ripetei allarmato dalla parola e dal suo sguardo curioso.
Aldina si alzò mettendosi a camminare per la stanza: io la seguivo, fin dove potevo, con lo sguardo ed ascoltavo, fuori dal mio campo visivo, il rumore ritmato dei suoi tacchi. "Sì - incominciò a spiegare con calma - un esperimento sul controllo del cervello: mai sentito parlare di feticismo? (o qualcosa del genere), un’amica mi ha spiegato che può essere provocato ed io lo sto radicando in te come una droga irresistibile, attraverso l'ipnosi ed il riflesso condizionato".
"Il riflesso condizionato?" nuovamente ripetei.
"Già, non so e non mi interessa sapere come esattamente funzioni tutta questa storia scientifica ... l'inventore è un russo, un certo Paolov o Pavlov che fece qualcosa ai suoi cani, e tu stai per diventare il mio cagnolino ubbidiente; altre persone hanno già fatto questo esperimento ottenendo il controllo di chi volevano ed io ho
scelto te perché mi sarebbe sempre piaciuto collezionare un avvocato: sei giovane, brillante e ‘quadrato’: sarà divertente vedere cosa posso fare di te!".
Adesso avevo veramente paura: non si trattava di una sciocca follia, ma di un esperimento condotto su basi scientifiche.
Non mi ero mai sentito così vulnerabile ed impotente in vita mia.
"Ti interesserà sapere - disse Aldina - che una telecamera posta dietro quello specchio sta registrando ogni fase dell'esperimento".
Guardai lo specchio con imbarazzato timore, ma vidi solo la mia immagine riflessa.
"Al termine del trattamento - proseguì - il filmato mostrerà come tu sarai gradualmente diventato completamente schiavo della bellezza della tua padroncina, e guidato in ogni tuo pensiero ed azione dall'irresistibile desiderio sessuale che ti sto inculcando: il tuo cervello sarà come cera plasmata a mio piacimento dalle dita dei miei
piedini".
"Sciocchezze" risposi, mascherando con incerta spavalderia il vero e proprio terrore che mi aveva assalito, ma la sua risposta, seppure non esplicita, fu ancora più efficace: camminò infatti verso di me e sussurrò "Apri la bocca e preparati a succhiarmi le dita".
Io obbedii senza indugio ed ella, sorridendo trionfante, si
sedette appresso a me e si sfilò un sandalo, alzando il piedino ricurvo fino a sfiorare le mie labbra con le dita: io, incurante della telecamera e di tutto il mondo, cominciai a baciargliele con passione.
Poi ella sfiorando con l'altro piede il mio pene eretto, disse "Ora sei pronto" ed, accavallate le gambe, aggiunse "Adesso voglio che ti concentri totalmente sul mio irresistibile piedino": io lo guardai
intensamente mentre Aldina lo dondolava davanti ai miei occhi con un grazioso movimento, lento e regolare, in alto ed in basso.
"Rilassati completamente" lei mi disse. Capii che mi stava ipnotizzando e mi sentivo sempre più costretto a fare del suo piede il centro del mondo, mentre il mio sguardo era fisso sulle seducenti piccole unghie dipinte.
Un subitaneo moto di cosciente timore mi fece distogliere gli occhi ma ella, senza interrompersi per dire una parola, premette un bottone su di un piccolo telecomando: dal collare che indossavo si irradiò nel mio corpo una violenta scarica elettrica che mi fece gridare dal dolore.
"Ti ho detto di pensare solo al mio piede - ella disse – ed ora sai che ti succede quando disubbidisci”: io ritornai a contemplare con intensità il bel piedino dondolante, mentre la voce di Aldina diventava un sussurro di sirena carezzevole ed incomprensibile. Sprofondai così in uno stato sempre più assorto e svanito,
svanitasi insieme la mia coscienza nel suo sinuoso movimento, nella grazia delle desiderabili dita profumate, nei lampi di colore delle unghie che mi passavano ritmicamente davanti; giunsi infine a completamente assopirmi, non prima di avere nuovamente rilasciato il mio seme.

Alcuni rumori mi disturbavano ma io non volevo svegliarmi, per non dover abbandonare il meraviglioso sogno in cui vedevo, come la diva di un film, Aldina camminare sugli eleganti sandali sollevando un poco,
ad ogni passo, il piede dalla suola, e permettendomi di catturare con avido sguardo le delizie della pianta delicatamente ricurva.
Poi la immaginavo sedersi dinnanzi a me e muovere le seducenti dita dipinte, che magneticamente mi attiravano a rendere omaggio alla loro divinità.
Nel sogno rivivevo anche sessioni realmente accadute durante la trascorsa cattività: in una di esse mi ero ritrovato, svegliandomi, nudo ed immobilizzato in una vasca da bagno.
Aldina era in piedi al bordo della vasca, nuda anch'essa e bella da togliere il respiro: io, nell'ormai abituale semi-incoscienza dovuta alle sostanze continuamente somministratemi, ero perso nella contemplazione del suo seno scoperto e rotondo e della sua affascinante vulva.
Ella aprì il rubinetto rilasciando uno scroscio continuo d'acqua tiepida che mi carezzava lo scroto, entrò poi nella vasca e, voltatemi le spalle, calò sul mio volto l'ano roseo ed olezzante, ordinandomi di rendergli omaggio.
Io esitai ed Aldina, voltatasi, mi colpì tre o quattro volte in viso: quando riprese la posizione io mi mostrai ubbidiente ed esplorai con la lingua ogni minuscola e recondita piega del suo pozzo scuro, in cui la mia mente, non meno della mia lingua, sprofondava vorticosamente. Poi ella si girò e si fece baciare la vagina, strofinandomi sul volto una vischiosa scia e facendomi succhiare i suoi copiosi umori.
Quando si alzò io la fissavo con estatica reverenza ed incontenibile eccitazione; poi Aldina si sedette sul bordo della vasca e, stendendo il bel piedino, mi comandò di aprire la bocca, ove infilò le
deliziose dita: sentivo ancora il suo dolce comando: "Succhia schiavetto".
Anche in quell'occasione ricordavo di avere avuto un devastante orgasmo che mi aveva completamente fatto perdere ogni controllo, di modo che avrei continuato a succhiare con demente passione se ella non avesse ad un certo punto ritirato il piedino, sorridendomi e subito dopo rimandandomi nell'incoscienza con una nuova iniezione.
Rammentavo anche altre sessioni, svoltesi in modi ed ambienti diversi: ogni volta però io dovevo ubbidire ad Aldina per non incorrere nella sua punizione, ed ogni volta ella mi gratificava, al termine di ogni incontro, provocandomi uno spasmodico orgasmo mentre io le baciavo i piedi e le parti intime.
Poi ella mi rimetteva a dormire iniettandomi qualche sostanza o, sempre più spesso, semplicemente ordinandomi di fissare il suo piedino dondolante.
Il sogno mi faceva sentire accaldato ed eccitato ma, continuando i rumori, io cominciai a riprendere coscienza.
Il subitaneo pensiero di ciò che Aldina stava facendo al mio cervello affrettò il risveglio della mia mente, ancora occupata dalle immagini ricorrenti, ma ogni cosa mi sembrava confusa e distorta, probabilmente perché ero continuamente mantenuto sotto l'effetto di droga.
Non aprii gli occhi per capire quale fosse la causa dei rumori e dei movimenti che avvertivo perché volevo pensare: non sapevo da quanto tempo Aldina mi tenesse in suo potere, ma dovevo fare qualcosa per
riprendermi la mia vita.
Non potevo permettere che ella giocasse a piacimento con il mio cervello ed inoltre mi rendevo conto con sgomento che, nonostante (o forse proprio a causa di) tutto quello che mi era stato fatto, mi sentivo sempre più attratto dalla mia rapitrice: dovevo fuggire prima che fosse troppo tardi.
Ad un certo punto mi accorsi che ogni movimento intorno a me era cessato, e ne approfittai per riaprire con cautela gli occhi: nonostante l'oscurità mi resi conto di trovarmi nel salotto dell'appartamento ove tutto era iniziato, non ero legato ed avevo stranamente indosso tutti i miei vestiti.
Quando verificai che intorno a me non si scorgeva né si udiva anima viva, il mio primo pensiero fu che Aldina fosse uscita, mal calcolando i miei tempi di risveglio: dovevo approfittare dell'occasione e fuggire.
Mi alzai con circospezione e lentamente mi affacciai all'anticamera, semioscura anch'essa: neanche dalle altre stanze provenivano rumori e le chiavi della porta d'ingresso erano appese allo stipite: ero libero!
Mentre però stavo per slanciarmi verso la porta, trasalii nell'udire una sommessa voce alle mie spalle: "Per favore, guardami un'ultima volta prima di andartene"; nonostante il mio istinto mi suggerisse di fuggire, per qualche ragione mi voltai e la guardai, sentendomi mancare: ella sedeva in una poltrona nell'angolo più oscuro del salotto, sicché era rimasta invisibile prima di accendere la lampada a stelo che si trovava al suo fianco.
Aldina indossava un abito scuro, lungo fino a terra, dai cui profondi spacchi si intravedevano le gambe nude e pallide.
"Per favore, prima di andartene vieni da me per un ultimo saluto" mi disse quasi umilmente.
Io pensai che stavolta non sarebbe successo nulla: non ero più legato ed ero troppo vicino alla libertà perché ella mi potesse fermare, così mi avvicinai a lei.
Ella si alzò ed io non potei fare a meno di pensare che era una regina, però volevo e potevo resisterle, sicché non abbassai lo sguardo e, continuando a fissarla negli occhi, le dissi: "Il tuo piccolo esperimento è fallito".
"Io non penso – rispose, riacquistando il sorriso sornione che ben conoscevo - infatti non te ne andrai".
"Ah! E chi mi tratterrà?" ribattei.
"Il mio volere, che ora è diventato il tuo" disse Aldina.
"Senti, Aldina, guarda che il giochetto è finito – replicai, con reciproco scherno, mentre mi voltavo per andarmene - la partita l'ho vinta io ed ora piantiamola una buona volta con queste scemenze".
"Un attimo" ella chiamò in un sussurro.
"Che c'è ancora?" risposi spazientito.
"Guardami i piedi".
Per qualche ragione lo feci, abbassando lo sguardo ed mmobilizzandomi, incapace di respirare: dall'orlo del nero abito di Aldina spuntavano un paio di sandali dorati, che apparivano come un contorno di stelle
alle dita delicatamente rotonde che si affacciavano a mostrare le unghie laccate scure, mentre un sottile ornamento anch'esso d'oro incatenava lo sguardo ad una delle caviglie ben tornite.
Io ero paralizzato ed attratto come una falena che, pur sapendo di morire, non può fare a meno di slanciarsi nella luce.
A quel punto la porta dell'anticamera si aprì ed entrò un'altra donna, giovane e graziosa, che io conoscevo essere amica di Aldina: Graziana si pose a sedere sul divano e, come se fosse ad uno spettacolo, applaudì la scena ridendo.
Intuii allora che non vi era stato alcun errore e che tutto era stato programmato fin dal principio.
Aldina, con un sorriso, mi disse infatti: "Come vedi tu non hai nessuna intenzione di andartene, ma vuoi restare ed obbedire ciecamente ad ogni capriccio della tua padroncina, che ora ti controlla mente, anima e corpo". Io tacqui sconfitto.
"Ora - ella disse, riacquistando tutta la sua autorità – mi sa che ti macchierai i pantaloni".
Io rimasi immobile ed attonito, ancora aggrappandomi al pensiero di poterle resistere, ma quando ella batté due volte a terra la punta del sandaletto, sentii il liquido caldo e vischioso scendermi lungo le gambe.
L'amica di nuovo applaudì ridendo, mentre su l’indumento appariva un'inequivocabile macchia scura.
"Togliti i vestiti - comandò Aldina - asciugati con la salvietta ed indossa questi altri abiti".
Io mi tolsi la giacca, la cravatta, la camicia, i pantaloni e tutto il resto rimanendo, nudo ed umiliato, a ripulirmi davanti alle due donne che scherzavano fra loro nel vedere la mia incontrollabile erezione. Poi, come un muto automa, indossai gli abiti che Aldina mi aveva indicato.
Quindi la mia padroncina, sorridendo, batté il sandaletto un'altra volta ed io, senza aver ricevuto alcun esplicito ordine, mi inginocchiai e mi accinsi ad adorarla.
Prima che invero potessi iniziare a renderle omaggio ella mi fermò e mi disse di leggere la minuscola targhetta d'oro attaccata alla cavigliera: vi era inciso il mio nome e quando Aldina mi domandò se ne sapevo la ragione, con sicurezza risposi che era perché d'ora innanzi sarei stato sempre ai piedi della mia padroncina.
Soddisfatta, mi diede il permesso di baciarle le dita, infilando la lingua in mezzo ad esse, e fra esse e la suola dorata dei sandali.
Poi ella disse: "Basta adesso: come io sono la tua dea e padrona, lo sono anche le mie amiche. Su cuoricino, fai i dovuti omaggi alla mia ospite".
Immediatamente mi prostrai dinnanzi a Graziana che ancora rideva e, con lo sguardo fisso a terra, presentai i palmi delle mani rivolti verso l'alto, supplicandola di accettare la dovuta adorazione.
Ella vi appoggiò i piedini, calzati da eleganti zoccoletti ed io unii dovere e piacere, come meglio ero stato forzatamente istruito.
Ancora dentro di me sentivo l'impulso a ribellarmi alle abiette pratiche cui mi stavo assuefacendo, ma sempre più forte dentro di me era la voce che mi diceva: "Aldina è la tua stupenda dea e padrona. Tu sei irresistibilmente attratto dal suo corpo meraviglioso, ed obbedirla in ogni capriccio è il tuo piacere. Aldina è la tua volontà, la tua intelligenza ed il tuo unico pensiero".
Gradualmente avvertivo che null'altro più importava e che avrei dato ogni cosa che possedevo, anche la vita, per poter godere del privilegio di un fugace contatto dei suoi deliziosi piedini, che io desideravo sopra ogni altra cosa.
Quando Aldina batté nuovamente il sandaletto, io ritornai ad inginocchiarmi davanti a lei ed attesi ordini: la mia padrona, nuovamente sedutasi, scostò lo spacco che fendeva il lungo abito fino alla cintura, rivelandomi la magnificenza della sua vulva, non coperta da altro se non dalla folta peluria pubica.
"Leccami ed adorami" mi ordinò, ed io lavai i suoi umori con lenti e prolungati passaggi sulla sua serica stola e sulla sua profumata profondità.
Quindi aggiunse: "Molto bene. Adesso avrai la tua ricompensa".
Io fremetti di eccitata attesa quando ella puntò l'indice inanellato verso la fibbia del sandaletto. Slacciai quindi quest'ultimo e lo sfilai con adorante delicatezza, portandomi la calzatura al viso per baciarla ed aspirarne la divina fragranza.
Poi ella protese l'alluce ed allargò le dita del piede, agitandole davanti a me ed io, obbedendo ad un impulso preordinato mi posi immobile e supino, estendendo la lingua per riverire le estremità della mia dea, oggetto del mio intenso desiderio.
Aldina giocherellò per qualche tempo facendo passare lentamente e ripetutamente il piedino alto sopra di me mentre io, tenendo il capo al suolo, protendevo la lingua il più possibile per raggiungerlo.
Poi ella finalmente sorrise ed abbassò pesantemente la pianta del piede, premendola sulle mie labbra.
Mi sentivo in estasi e bacia le preziose dita con urgente passione, assaporandole ad una ad una e svuotandomi da ogni pensiero, fino a raggiungere l'ennesimo violento orgasmo.
Poi dopo una breve pausa, durante la quale, semi-incosciente, sentii Aldina e Graziana scherzare e ridere insieme, la mia padrona schioccò le dita ed io immediatamente mi posi in ginocchio, con lo sguardo fisso al suolo e le palme protese.
Contemporaneamente ripresi coscienza di me e mi misi a singhiozzare per l'umiliazione: Graziana di nuovo applaudì ridendo.
Aldina mi chiamò vicino a sé con un cenno del dito ed, abbassatasi sul mio orecchio, mi disse: "Non preoccuparti, adesso tu non sei più niente ed io sono tutto: sarai sempre felice di ubbidirmi": io infatti
sapevo che oramai non potevo se non abbandonarmi completamente a lei.
Quella sera stessa uscii - come avevo lungamente agognato - dall'appartamento di Aldina: ma solo per riaccompagnare Graziana con la mia automobile: giunti dinnanzi a casa sua scesi per aprirle la portiera ed ella, volendo godere di un'ultima perfidia, fece finta di lasciarsi sfuggire di mano le chiavi.
Quando mi chinai a raccoglierle Graziana agitò ridendo le dita dei piedi ed io, conoscendo il segnale, non potei fare a meno di renderle in pubblico l'ennesimo fugace omaggio.
Feci poi una breve sosta a casa mia per cambiarmi nuovamente e tornai a prendere la mia padroncina, accompagnandola a fare spese (ebbi l'onore di sostituire i commessi nel farle provare personalmente ogni
acquisto) ed attendendola in estatica contemplazione mentre, ciarlando con la parrucchiera, si faceva sistemare l'acconciatura.
La sera la condussi, elegantissima e preziosa, a cena in un esclusivo ristorante ove ella approfittò del tavolo appartato riservatoci, per esigere ripetutamente il mio omaggio secondo le modalità che la sua vivace fantasia, stimolata dalla libagione, di volta in volta le suggeriva.
Dopo che l'ebbi riaccompagnata a casa salutandola come mi era stato insegnato, tornai nel mio appartamento ed il mattino dopo mi recai in ufficio: in tarda mattinata sentii squillare il telefono ed, alzato
il ricevitore, non udii parole, ma solo un inconfondibile battito di sandaletto sull'impiantito.
Corsi quindi immediatamente a casa di Aldina, che quel giorno stesso si licenziò dal negozio in cui aveva sinora lavorato come commessa: ella infatti fu assunta dal mio studio.
In realtà Aldina non frequenta l'ufficio e non percepisce un vero stipendio perché possiede, con me, ogni mio
avere (che io comunque mi affrettai - dietro suo gradito comando - ad intestarle). La sua vecchia utilitaria è stata sostituita da una fiammante convertibile ed ella passa nello svago le sue giornate.
Ogni volta che sento al telefono l'irresistibile richiamo io corro immediatamente da lei, perché sono schiavo della sua bellezza e, soprattutto, dei suoi deliziosi piedini.
Talvolta usciamo anche insieme e mi è anche capitato di aiutarla a procurarsi nuovi schiavi: non c'è niente infatti che non farei per Aldina perché i desideri della mia padroncina sono ora l'unica cosa che per me ha importanza’.

Avevo tradotto il racconto in preda ad un impulso subitaneo: lo stesso impulso che mi faceva, a volte, inserire nel corpo di lunghi documenti ufficiali frasi spezzate di delirante feticismo, evidenziando tramite
l'apposito comando parole ricorrenti e sostituendo loro espliciti riferimenti a padroncine vagheggiate nella loro fisica e dominante essenza, quindi cancellandoli prima dell'archiviazione in memoria.
Avevo letto e riletto la traduzione, spostandone e modificandone il testo per adattarlo al modello di reale riferimento, senza tuttavia renderlo troppo esplicito: un incontro occasionale aveva determinato il soggetto ed aveva invaso la mia mente, sottraendomi ogni facoltà di produttivo pensiero, giacchè la stessa era completamente assorta per rievocare e fissare nello scritto ogni dettaglio della fugace impressione.
Avevo poi, nell’attimo di un impulso più urgente, premuto il tasto d'invio della posta elettronica, sorvegliando con angosciata eccitazione il rapido ed irreversibile procedimento che per la prima volta estrinsecava le sinora gelosamente celate intime pulsioni.
Nelle ripetute quotidiane connessioni dei giorni successivi avevo digitato l'indirizzo del sito cui avevo indirizzato l’invio con sempre rinnovata trepidazione, contraddittoriamente sospirando insieme di attesa e di sollievo quando esso si apriva senza mostrare traccia del mio racconto, trasalendo poi quando quest'ultimo era apparso nell'apposita pagina, avidamente leggendo ciò che sapevo a memoria quando infine il titolo era immediatamente comparso - con l'evidenza riservata agli ultimi arrivi - dinanzi agli occhi di chiunque si
connettesse.
Avevo mille volte valutato la possibilità che - partendo dagli indizi biografici - fosse possibile risalire ad entrambi i reali soggetti del racconto e, pur avendola esclusa con confortante raziocinio, avevo per qualche giorno temuto un nuovo incontro, più o meno casuale, la percezione del quale sarebbe stata in me alterata da una conoscenza la cui condivisione rimaneva per me un angosciante dubbio.
Poi altri racconti avevano occupato la prima pagina del sito, spodestando l'evidenza grafica del mio parto letterario: avevo allora ripreso il mio lavoro con certa riacquistata serenità, biasimando la mia follia e quasi dimenticando l'incarnato soggetto delle mie fantasie.
Quella mattina mi ero recato presto in ufficio per più efficacemente combattere la quotidiana lotta contro le numerose pratiche che, con sempre più ingombrante fisicità, si erano negli ultimi tempi impossessate della mia scrivania drasticamente riducendo lo spazio libero a mia disposizione.
La proficua freneticità delle prime ore aveva avviato positivamente la giornata, sicché stavo - nel tardo mattino - considerando la possibilità di allentare un poco il ritmo e concedermi una pausa per il pranzo più distesa, sì da riprendere in modo rilassato il lavoro pomeridiano.
Fu in quell'istante che la segretaria mi chiamò sull'interfono: “C'è qui la signora Aldina che desidera vederla".

Sobbalzai in preda a mille pensieri: poteva essere una coincidenza? - pensavo e speravo - tuttavia perché presentarsi col nome di battesimo se si fosse trattato di una pratica d'ufficio?
La concatenazione temporale era poi decisamente a mio sfavore: non avevo mai avuto Aldina come cliente, poteva essere che - proprio pochi giorni dopo che era stato pubblicato il mio racconto - ella si rivolgesse per la prima volta al mio studio per chiedere una prestazione professionale, proprio come nel racconto stesso
avevo vagheggiato?
L'imbarazzante riflessione dovette portarmi via alcuni secondi, infatti udii nuovamente la voce della segretaria che mi chiamava in modo interrogativo: "Avvocato ...".
L'intervallo trascorso era ormai troppo lungo anche per una salvifica negazione.
Aldina - proprio per sfruttare la sorpresa, pensai - non aveva preso alcun appuntamento: avrei ben potuto dirmi impegnato, ma in questo
caso avrei dovuto rispondere con prontezza, poiché se ella sapeva (questo era il mio angosciante cruccio!) avrebbe sicuramente saputo interpretare l'esitazione e, prima o poi, sarebbe stata in vantaggio
nell'affrontarmi.
Cedetti all'inevitabile (o forse volli cedere!) e dissi di far passare la signora, mentalmente seguendo i suoi passi fino alla porta del mio ufficio mentre convulsamente pensavo a ciò che sarebbe potuto accadere e a come comportarmi.
Il primo dei miei propositi crollò tuttavia mentre ancora la porta si stava aprendo: il mio sguardo si posò infatti immediatamente sul piedino rotondo, troppo tardi salendo al viso perché la mia
visitatrice non se n'accorgesse.
L'abbigliamento di Aldina - del tutto simile a quello da me già descritto nel racconto - ed il sorriso di trionfo con cui ella entrò nell'ufficio, senza quasi salutarmi ed accomodandosi in poltrona senza attendere invito, fecero crollare ogni sperata coincidenza, ed io capii che ella avrebbe giocato con me come il gatto gioca con il topo in trappola.
Mi accinsi tuttavia a sostenere la parte e feci per accomodarmi a mia volta dietro il fragile rifugio della scrivania.
"Non lì, per favore: mi sento in soggezione a dover parlare con qualcuno seduto così in alto.
Ti dispiace metterti su quest'altra poltrona?" disse, accompagnando le parole con un angelico sorriso che ne nascondeva la perfidia e con un tono di simulata umiltà che meglio evidenziava la facoltà di disporre in casa altrui.
Mentre poi mi stavo sedendo ove indicatomi, ella nuovamente interruppe la mia azione "Ti dispiace - ancora mi chiese, simili il tono e le parole - chiedere che non ci disturbino mentre parliamo?".
E mentre nuovamente mi alzavo per eseguire le sue istruzioni "So che puoi farlo - ella aggiunse - perché qui tutti ti ubbidiscono!".
Risposi con un imbarazzato sorriso alla volutamente malcelata ironia mentre chiedevo all'interfono che non mi passassero nessuna chiamata.
"Nemmeno Londra?" rammentò con efficiente premura la segretaria.
"Ho detto nessuna! - sbottai, lasciando che la mia estrema tensione si sfogasse sull'innocente - Devo sempre ripetere le cose due volte?".
"Come sei autoritario! Non mi piacerebbe lavorare per te, ma ... dimmi cuoricino - riprese Aldina, accavallando le gambe ed incominciando a dondolare il piede a pochissima distanza da dove ero seduto - chi
sarebbe mai questa Graziana?".
Il mio sobbalzo ed il subitaneo rossore furono accresciuti dalla sorpresa per il così rapido disvelarsi delle sue vere intenzioni, e provocarono l'argentina risata della mia tormentatrice, di fronte alla quale la mia tardiva finzione d'ignoranza risuonò assai patetica: "Chi?".
"Hai capito benissimo cuoricino: Graziana, l'amica che tu accompagni a casa per poi renderle in pubblico l'ennesimo fugace omaggio alle dita dei piedi" ella esclamò continuando a ridere ed agitando le proprie che sbucavano dal sandalo sottile, accentuatane la seduzione dalla volgarità della risata e del gesto.
"Non mi chiamo 'cuoricino' e non so di cosa tu stia parlando" dissi, finalmente mostrando un tentativo di riprendere il controllo, più efficace se avessi saputo in quel momento fissare gli occhi di Aldina, anziché le sue estremità.
"Invece lo sai benissimo" sbottò Aldina, fissandomi con un lampo di stizza nei piccoli occhi scuri mentre da una tasca del minuscolo abito estraeva un foglio da cui cominciò a leggere: "Aldina è la tua stupenda dea e padrona.
Tu sei irresistibilmente attratto dal suo corpo meraviglioso, ed obbedirla in ogni capriccio è il tuo piacere. Aldina è la tua volontà, la tua intelligenza ed il tuo unico pensiero".
"Devo continuare a leggere? ... No, direi di no" disse poi, appoggiando la caviglia sulla mia gamba e sfiorando con la suola la mia appariscente eccitazione.
"Scrivi in modo tanto prezioso ma ragioni come tutti gli uomini .. con questo! - aggiunse premendo leggermente il sandalo - e come vedi non ho bisogno di droghe, iniezioni o esperimenti strani per fartelo
capire".
Io portai la mano sopra il suo piedino per rimuoverlo all'imbarazzante posizione, ma non appena l'ebbi afferrato Aldina, svelta, appoggiò su di me anche l'altra gamba ed incominciò a muovere le dita
solleticandomi il palmo.
"Massaggiameli tutti e due, cuoricino, so che ti piace e piace anche a me, alla tua padroncina" ella disse, accompagnando l'ordine con un riacquistato sorriso, divenuto trionfale dopoché, appoggiata la mano sinistra sull'altro piedino, cominciai a far scorrere le dita intorno ad entrambe le caviglie nude, scendendo poi ad infilarle sotto la pianta ricurva e strofinandole in mezzo alle sue dita dipinte.
Mi bloccai nell'udire lo scatto di una piccola macchina fotografica, ma Aldina prevenne con voce ferma ogni mia reazione dicendo: "Stai tranquillo, non voglio farti del male: oramai è troppo tardi perché tu voglia tornare indietro e se provi a togliermi la macchina mi metto ad urlare. Non vorrai che tutti sappiano che cosa scrivi mentre tutti ti credono impegnato nelle pratiche d'ufficio! Slacciami i sandali".
La mia protesta si risolse in un ridicolo mormorio mentre mi accingevo a liberare la fibbietta dorata.
Non appena la calzatura cadde a terra con un tonfo ovattato, Aldina sollevò il piede e me lo premette con forza sulle labbra: "Non voglio sentire mugugni - ella disse - d'ora in poi queste labbra diranno solo ciò che la tua padroncina ti comanda di dire e questa testolina - aggiunse, alzando il piede fino ad appoggiarmi la suola sulla fronte - penserà solo ciò che la tua padroncina ti comanda di pensare. Hai capito?"
"Sì" risposi sconfitto.
"Sì cosa?" ella ribadì severa, aumentando la pressione delle sue suole nude sulla mia fronte e sul mio addome.
"Sì padroncina" bisbigliai, svuotandomi definitivamente.
"Bravo cuoricino - ella disse sorridendo materna - vedrai che staremo bene. Di che colore ti piacciono le unghie? ... rosse? ... o magari scure?".
"Rosse sono bellissime ... anche scure" risposi ormai in sua completa balia.
"Allora stasera, prima di uscire a cena, me le dipingerò come piace a te. Anzi, magari le faccio dipingere a te, sei contento?".
"Ma stasera .." accennai, subito però bloccandomi mentre la sentivo irrigidirsi ed incrociavo la sua occhiata cupa.
Abbassai subito gli occhi e dissi: "Grazie padroncina, farò come tu mi comandi".
"Bene, sei proprio un bravo schiavetto ubbidiente, adesso togliti i vestiti e mettiti in ginocchio che sono stufa di tenere alzate le gambe e dobbiamo fare ancora qualche fotografia".
Passammo il successivo quarto d'ora a riempire la pellicola, mentre Aldina scattava e rideva delle pose umilianti di volta in volta escogitate; quando infine il rullino fu completo ella si fece rimettere i sandali.
"Ah, quasi dimenticavo: fissa il mio dito" ella disse alzando cerimoniosamente l'indice destro e facendolo scendere lentamente - assieme al mio sguardo - fino all'orlo del succinto vestito estivo, la cui minigonna si era già ritirata mentre Aldina allargava le cosce. Ella sollevò poi con la mano sinistra l'orlo dell'abitino.
"C'era anche questa nel tuo sogno, non è vero? E adesso che sei davvero il mio schiavetto non ti puoi più accontentare del sogno!" riprese a dire mentre mostrava l'umidore che luccicava fra il folto pelo pubico e che aveva già macchiato il tessuto della poltrona su cui ella sedeva, priva di biancheria intima.
Con la stessa cerimoniosa lentezza avvicinò, senza dare tregua al mio sguardo estatico, il dito alzato all'intima fessura, inclinandolo poi e facendolo penetrare lentamente nella vulva mentre socchiudeva gli occhi e gemeva di piacere.
Con altrettanta lentezza lo estrasse e lo puntò, bagnato, nella mia direzione.
"Voglio che ti masturbi mentre lo succhi" ella comandò, ed io ubbidii prontamente, dopo poco rilasciando un vigoroso fiotto caldo e biancastro che andò a ricoprire i piedini di Aldina.
Alzai gli occhi preoccupato mentre continuavo a succhiare, ma ella mi sorrise bonaria: "Non preoccuparti - mi disse - è il tuo pegno d'amore: fra poco usciremo insieme e non te li farò ripulire, così tutti sapranno quanto mi sei devoto".
Mi fece quindi alzare e rivestire ed uscimmo insieme dall'ufficio; mentre, passando, incaricavo la sgomenta segretaria di annullare ogni impegno perché non sarei stato di ritorno nel pomeriggio, Aldina alle mie spalle ridacchiava rimirandosi i piedini rotondi ricoperti del mio pegno d'amore.

Mi ha sempre destato ammirata meraviglia l’innata capacità delle donne, dalla più intelligente alla più stupida, di esattamente ed istantaneamente sentire la misura del proprio ascendente su chi le circonda, sicché é loro permesso, quando non innamorate, alternare nella mutevole trama della seduzione offerta e ritrosia, controllo e rilascio, sì da rendere sempre più salda la presa senza spezzare l’elastica ma inevadibile loro ragnatela.
Aldina aveva ottenuto di assoggettarmi a lei, umiliandomi e facendomi confessare la sua elezione quale oggetto delle mie fantasie erotiche; non importa se tale oggetto era del tutto occasionale: era a lei che mi ero riferito nel divulgare le mie pulsioni ed era lei – tuttora mi chiedevo come! – che aveva inopinatamente raccolto il mio sfogo traducendolo in realtà, era dietro a lei, infine, che ora camminavo dopoché, usciti dall’ufficio, ella mi aveva intimato di seguirla senza distogliere lo sguardo dai suoi rosei talloni, dalle caviglie, dai polpacci, dalle rotondità ricolme che spingevano verso l’alto il succinto orlo del minuscolo abito da lei indossato.
Avvertivo, senza osare trasgredire il limite del magnifico orizzonte impostomi, la curiosità destata nei passanti - fra cui immaginavo miei conoscenti – dal lussurioso incedere della mia padroncina, dal
suo provocante abbigliamento, dal mio rimorchiato rapimento che mi volevo illudere non evidente, o almeno confondibile con l’assorbimento in più elevati e lontani pensieri.
Ero peraltro affascinato dalla sottile perfidia dell’incolta Aldina la quale dimostrava una capacità di dominazione psicologica che nemmeno dieci corsi di laurea avrebbero potuto instillarle: ella infatti sapeva che un più esplicito sfoggio di sottomissione – oltre ad
essere meno indelebilmente efficace – avrebbe potuto darmi la forza di ribellarmi, mentre ora camminavo ubbidiente, confuso, eccitato ed adorante ad un passo dietro di lei, assorto nella cadenza del suo moto, mentre sentivo le sue flessuose suole regolarmente alternarsi nel premere dentro di me, non meno di quanto lo facessero sul selciato dell’assolata via del centro che stavamo percorrendo, attraverso i passanti che approfittavano della pausa meridiana.
Di tanto in tanto Aldina si voltava, rivolgendomi un malizioso sorriso che io tuttavia non potevo vedere; ad un certo punto poi ella si fermò, sedendosi al tavolino esterno di un bar e comandandomi di fare altrettanto "Ora puoi guardarmi in faccia", mi disse, incatenando tuttavia il mio sguardo ancora per qualche istante con lo spettacolo del suo piedino, non ripulito, che dondolava dalla gamba accavallata: poi ella estrasse dalla borsa una salviettina imbevuta che mi porse, alternando la posizione mentre io accudivo, senza che me lo
dovesse dire, all’una e poi all’altra sua estremità.
"Ho dei progetti che ti riguardano – ella mi disse – Vai a chiamare qualcuno, che ho fame, poi ti dirò cosa voglio fare di te".
Quando tornai accompagnato dal cameriere, Aldina fece l’ordinazione per entrambi ("Per lui solo un bicchiere d’acqua, se no ingrassa e non lo voglio più" sorrise complice all’inserviente) poi incominciò a
parlarmi.
"Quando qualche tempo fa un’amica mi ha mostrato per scherzo il racconto, nessuna di noi due credeva che mi riguardasse: in seguito però, riflettendoci sopra, abbiamo capito che le coincidenze erano troppe, ed io ho incominciato a fantasticare su chi potesse averlo scritto. Ad un certo punto mi venne in mente lo sguardo che mi avevi dato quando ci eravamo recentemente incrociati per la strada ed ancora ricordai di averti dopo poco rivisto un paio di volte nel mio negozio, che non avevi mai frequentato: pensavo fosse impossibile che tu
avessi perso la testa per me al punto di scrivere quelle cose, mi sentii tuttavia sempre più eccitata al pensiero di poter fare di un uomo come te il mio docile schiavetto, pronto a fare qualsiasi cosa, anche a buttare all’aria tutta la sua vita, per obbedire ad ogni mio capriccio. Per qualche notte ho dormito pochissimo, toccandomi
però a lungo nel sogno di essere la tua regina e di appoggiare i miei piedini sul tuo cervello; poi, la settimana scorsa, la mia amica è corsa da me dicendomi che era stata pubblicata la prosecuzione del racconto, in cui tutto quadrava con la mie incredibili ipotesi.
Non stavo più nella pelle per l’eccitazione sicché stamattina ho deciso di fare una follia e togliermi il pensiero: ho indossato l’abito che ti piace tanto e sono venuta nel tuo ufficio, ancora incredula e già preparata ad inventare una scusa: quando però sono entrata ed ho visto i tuoi occhi abbassarsi mi sono bagnata tutta
dall’eccitazione di sentirmi veramente la tua padrona e di poter fare di te quello che voglio. Perché io posso fare di te ciò che voglio, vero che è così?".
"Si" risposi fiocamente.
"Si cosa?" ribattè.
"Si padroncina" aggiunsi con il medesimo tono di voce.
"Non ti ho sentito" ella infierì.
"Si padroncina" ripetei con maggiore forza, rapidamente guardandomi intorno.
"Bravo cuoricino, si vede che hai studiato tanto: impari bene e velocemente".
Io arrossii compiaciuto suscitando la sua sguaiata ilarità, accresciuta dall’avermi sorpreso inconsciamente
accarezzare il piedino che aveva appoggiato al bordo della mia sedia, mentre frugavo in mezzo alle sue dita portandomi poi alla bocca quanto vi raccoglievo.
La mortificante constatazione dell’abiezione in cui ero sprofondato risvegliò in un ultimo sussulto il mio desiderio di sottrarmi a quanto, fuori da ogni mio razionale controllo, stava accadendo per questo provai, persa ormai la dignità, ad implorare la mia musa di rendermi la libertà: "Ti prego Aldina – le dissi – sono un
pazzo e mi scuso di averti offesa col mio impuro pensiero, ma dimentichiamo tutto questo e restiamo amici: come sai io sono già impegnato e non sarebbe giusto offendere un’altra persona".
Mentre ancora parlavo mi rendevo tuttavia conto - anche se ella non avesse continuato a ridere più forte di prima - della tragicomica incongruenza delle mie parole, non ebbi quindi nessuna risposta (che comunque non avrei avuto la forza di dare) alle sue successive parole: "Hai mai detto alla persona che non vuoi offendere quanto trovi gustoso il sudiciume delle mie dita? Tu adesso sei il mio schiavetto, e la scelta l’hai fatta tu stesso quando hai incominciato a sognarmi. Sarò io d’ora in poi a decidere cosa fare di te: per adesso e ad incominciare da stasera incomincerai a frequentare casa mia come un appassionato spasimante".
Poi finì l’aperitivo contenuto nel proprio bicchiere, guardò l’orologio e si alzò aggiungendo "Adesso devo andare! tu stai qui ancora cinque minuti e paga il conto. Per quanto riguarda stasera questo è il programma: vieni a prendermi alle nove e trenta, dopo cena, e porta un bel mazzo di rose rosse che piacciono tanto a mia mamma".
Prima di andarsene voltò le spalle agli altri avventori, prese un’oliva dalla piccola ciotola che il cameriere aveva lasciato sul tavolino, e dopo essersela infilata sotto il vestito sorridendo la offrì al mio palato: "Questa è la droga più potente che ci sia – disse – e tu oramai sei un piccolo tossico che dipende esclusivamente da
me; ubbidiscimi in tutto ed avrai ogni giorno la tua dose". Chiusi gli occhi ed assaporai il suo presente, chiedendomi con sorpresa come potesse la mia nuova padroncina essere costantemente ricca di profumati umori.

Rimasi seduto più di cinque minuti al tavolino, nel tentativo di raccogliere i miei pensieri, poi andai a pagare il conto e mi misi a vagare per le vie del centro giacché non avevo il coraggio di tornare in ufficio, dopo avere oltretutto annullato ogni appuntamento.
Era venerdì, ed io mi cullavo nell’idea di poter disporre di un
paio di giorni per riposare e riflettere in merito alle implicazioni della nuova situazione che si era venuta creando con Aldina.
Già … Aldina: il pensiero della mia assurda sottomissione mi rimise in uno stato di agitazione in cui mi dibattei a lungo dopoché, presa l’automobile e tornato a casa, mi ritrovai disteso nella penombra della camera da letto per ripetutamente pensare all’umiliante incontro di poche ore prima. La mia vita – dicevo fra me – poteva dirsi agiata ed appagante, ero giovane, educato, di bell’aspetto e con una rispettata professione, coltivavo infine buone relazioni sociali e – non ultimo – un protratto e sereno legame, amorevolmente ricambiato, con una giovane collega che nulla certamente aveva da invidiare, per bellezza, eleganza, censo e cultura, alla mia nuova padroncina, alla cui negativa considerazione corrispondeva tuttavia una crescente ed
inspiegabile eccitazione.
La poco raffinata esibizione di quel corpo piccolo e formoso, quello sguardo ove era la socchiusa malizia a catturare, anziché la dilatata intelligenza, quell’aria di imperiosa consapevolezza di sé con cui, fin dal primo fugace incontro per la strada, ella mi aveva distrattamente salutato con l’aria
arrogante di chi incontra un inferiore, la sua espressione di trionfo quando aveva scoperto la mia debolezza: tutto questo faceva l’immenso potere di Aldina, trasformando l’oscura commessa di un grande magazzino in una fascinosa imperatrice il cui capriccio era divenuto la mia unica legge.
La rivedevo nelle immagini delle ultime ore: rivedevo il suo volto ora di musa capricciosa, ora di soddisfatta ammaliatrice, ora di indispettita regina; rivedevo i suoi succinti vestiti, il dito umido proteso verso di me, il sandalo col piedino imbrattato della mia eccitazione, ed intanto imbrattavo anche le coperte su cui ero
disteso.
Dopo essermi sfogato ripulii affrettatamente l’alcova prima di correre a prendere il telefono che squillava: risposi così con distratta irritazione a Paola, che era l’ultima persona con cui avrei voluto in quel momento parlare; mi sentivo – era vero – in colpa mentre farfugliavo qualche improbabile scusa per non adempiere alla promessa di portarla, quella sera, ad una rappresentazione teatrale cui ella da lungo tempo voleva assistere, tuttavia non potevo nel contempo soffocare l’iniquo rancore nei suoi confronti per il momento
sbagliato (ma capivo che difficilmente ci sarebbero ancora stati ‘momenti giusti’!) della telefonata: ella era una ragazza sensibile ed intelligente sicché capiva quando qualcosa non andava e non era il momento di discutere, il suo disappunto mi avrebbe tuttavia fatto meno male del tono dolente e sorpreso della sua voce.
Avevo ad ogni modo altro (o – meglio – altra!) a cui pensare e chiusi la comunicazione con sbrigativa cortesia e con l’incerto impegno di risentirci nei prossimi giorni (escludendo così anche l’imminente fine
settimana che eravamo soliti trascorrere insieme).
Mi ricoricai quindi ancora per qualche tempo a cullarmi nel pensiero che nulla di irreversibile era accaduto, che avrei potuto tornare sui miei passi richiamando Paola e trascorrendo con lei la sera a teatro invece di recarmi a casa di Aldina, che comunque le cose avrebbero potuto in qualche imprevedibile modo sistemarsi, magari con dei soldi, con qualche minaccia, forse chiedendo perdono, forse cercando l’aiuto di qualcuno: mentre tuttavia tali confuse elucubrazioni ancora si accavallavano nella mia mente, si era fatto tardi e già mi stavo lavando, rivestendo, stavo uscendo di casa, entrando in un negozio di fiori, poi in uno di dolci, stavo infine percorrendo – con mezz’ora di anticipo e senza aver cenato – la strada principale del paese su cui si affacciava l’abitazione dei genitori di Aldina.
Anche in questo vidi la perfidia della mia capricciosa padroncina: ella aveva infatti un proprio appartamento (quello del racconto!) ma aveva voluto che io la incontrassi qui, ove non solo i suoi genitori, ma tutto il locale andirivieni della serata estiva nel piccolo borgo
avrebbe notato e commentato la sua ultima conquista.
Alle ore 21,20 parcheggiai l’automobile lucida dinanzi alla casa ove ero già ripassato tre o quattro volte, ogni volta sentendo crescere, giungere all’acme e poi allentarsi la tensione a mano a mano che mi avvicinavo, oltrepassavo e poi mi allontanavo dal noto indirizzo; sedetti ancora un poco al posto guida, avvertendo sguardi pettegoli posarsi su di me, e poi scesi raccogliendo con impaccio le rose e l’ingombrante scatola di cioccolatini che avevo acquistato e dirigendomi verso il campanello che premetti alle ore 21,30 precise,
come mi era stato ordinato.
Venne ad aprirmi una donna in abito da casa e zoccoli, che dietro gli occhiali, la patina e l’appesantimento che il tempo aveva operato, subito riconobbi per la madre di Aldina.
"Buonasera signora – dissi – sono …";
"Lo so chi sei" ella mi interruppe con sgradevole famigliarità di complice, "Aldina mi dice sempre tutto" aggiunse, forse ignara di quanto questa nota mi potesse turbare.
"Vieni a sederti, che si sta preparando".
Seguii dunque la donna in un salotto che si affacciava sulla piccola anticamera ove ero stato ricevuto: di fronte intravidi una cucina ove un uomo minuto, probabilmente il padre di Aldina, stava rigovernando le masserizie usate per la cena.
Mi sedetti ove mi era stato indicato e la madre di Aldina si accomodò di fronte a me, incominciando a intrattenermi con una serie di domande che non si lasciavano scoraggiare dal cortese riserbo che io opponevo
loro: mi ero infatti accorto che la donna voleva completare le informazioni già parzialmente assunte in merito alla mia professione, al mio tenore di vita, etc., completando inoltre il discorso con ripetute lamentele in merito all’attuale impiego di Aldina che, ovviamente, d’ora in poi sarebbe mutato.
Il mio crescente disappunto mi rendeva sempre più distratto e stavo quasi pensando di inventare una scusa per sottrarmi all’incubo quando vidi il compiaciuto sorriso con cui la donna percepì il mio sussulto nell’udire un paio di tacchi leggeri scendere dalle scale; "Sta arrivando" ella disse, godendosi il mio rossore e l’agitazione in cui l’attesa faceva tutt’uno con il desiderio di fuggire.
Quest’ultimo sparì tuttavia completamente appena il mio sguardo si abbassò a contemplare Aldina, soffermatasi sulla porta per dare il massimo effetto al proprio ingresso: anche questa volta fui colpito
dapprima, con quasi fisico impatto, dai piedini tondeggianti con le piccole unghie laccate nere, splendidamente calzati in un paio di sandali dello stesso colore e dal tacco affusolato, che si allacciavano con una sottile stringa che dalla caviglia saliva ad abbracciare il polpaccio; vi era poi una minigonna nera ed un
reggiseno dello stesso colore.
Il velo trasparente di una sottile maglia, nera anch’essa, copriva le spalle scendendo fino all’addome e lasciando tralucere, ad ornamento dell’ombelico, una piccola perla di metallo grigio, del tutto simile a quella che segnava il centro del sottile nastro di nero velluto che cingeva il collo di Aldina.
Altre due piccole perle grigie riverberavano infine appese ai minuscoli lobi tramite lunghi pendenti; Aldina aveva poi rimarcato la sua scura seduzione con il trucco delle labbra sottili e delle ciglia.
L’arrogante padroncina si mise - con sua madre - a ridere allorché, balbettato un saluto, mi alzavo impacciato per porgerle i fiori e lasciavo cadere a terra l’ingombrante scatola di cioccolatini.
Senza poi commentare i miei regali ma fissandomi negli occhi con intensità Aldina mi domandò: "Ti piaccio?".
"Si" risposi in tono sommesso.
"Quanto ti piaccio?" insistette.
"Sei bellissima" risposi, mentre la madre, soddisfatta, non dava segno di volersi allontanare.
"Sai mamma – Aldina infierì – a lui piacciono le unghie dei piedi rosse, stamattina si era perfino offerto di dipingermele lui stesso: per questo voglio sapere bene, prima di uscire, se gli piacciono anche nere".
Poi rivolgendo nuovamente a me il suo tono civettuolo e canzonatorio mi disse, senza curarsi del mio devastante imbarazzo, "Se vuoi che esca con te devi dire subito, alla presenza di mia madre, che ti piacciono i miei piedini con le unghie nere. Guardali!" comandò, mentre agitava le dita.
Completamente incapace di reagire chinai il capo e, fissandoli, risposi che i suoi piedini erano incantevoli, che lei era elegantissima e che le sue piccole unghie nere, con la loro raffinatezza, avevano rapito il mio sguardo non appena ella era entrata nella stanza, per questo la pregavo di voler uscire con me.
"Allora andiamo, schiavetto" ella disse, scambiandosi prima di uscire un ultimo trionfante risolino con la madre.

Se davanti al cameriere che ci aveva servito all’ora di pranzo l’impudente estrinsecazione di dominio poteva essere apparsa una trascurabile battuta, sentire Aldina ribadire la mia servitù di fronte alla madre - che ne aveva gustato l’impeccabile regia - mi colpì con la violenza di un pugno nello stomaco acuendo il mio desiderio di fuggire da quella casa, sicché seguii la mia tormentatrice quasi spingendola col pensiero verso la porta ed affrettandomi poi a precederla per aprirle lo sportello dell’auto, diedi quindi subito potenza al motore col desiderio di allontanarmi al più presto dalla madre che ci salutava con la mano dalla finestra, mentre Aldina la ricambiava rivolgendo cenni di saluto anche ad un paio di signore che passeggiando si godevano, assieme al fresco della sera, un nuovo argomento di conversazione.
Uscii veloce dal paese mentre Aldina, incurante della mia agitazione, sorrideva fra sé del proprio successo e si adagiava comoda nel sedile, facendo salire l’orlo del vestito mentre divaricava leggermente le gambe, allungate ad affondare nel tappetino i sandali di vernice nera. Mentre compiva il malizioso gesto ella ne sbirciava con la coda dell’occhio l’effetto su di me, fu allora che notò il mio indispettito riserbo e, subitamente assunto l’aspetto imbronciato che già conoscevo, mi ordinò secca di fermare l’auto: mi infilai quindi in una piazzola di servizio e rimasi parcheggiato col motore acceso, guardando davanti a me nell’incapacità di affrontare la discussione.
"Spegni il motore e guardami" ella disse fissandomi con i piccoli occhi accesi e le labbra serrate in una sottile linea scura; nessuno passava sicché, ruotata la chiave, scese il silenzio: io mi voltai verso Aldina e flebilmente esposi il mio lamento: "Non dovevi chiamarmi ‘schiavetto’ di fronte a tua madre".
Ella mantenne ancora un istante lo sguardo corrucciato facendomi abbassare gli occhi, fermatisi nell’ombroso varco in cui si affacciava il lussureggiante pelo pubico, cui il succinto abitino costituiva ben
misero presidio; poi improvvisamente scoppiò a ridere ed, afferratomi dietro la nuca, attirò la mia sulla sua bocca, allacciandomi in un lungo bacio sensuale mentre la lingua si impadroniva prepotente di ogni angolo del mio palato.
Mentre ancora durava l’amplesso, Aldina sfilò dalla borsa una piccola pasticca bianca, che mi infilò in bocca, spingendola poi subito a fondo con la lingua fino a farmela inghiottire, dopodiché si staccò
da me e rimase a fissarmi incuriosita.
"Cos’hai fatto?" le chiesi, un po’ allarmato.
"Dovresti saperlo cuoricino – fu la sua risposta – e comunque fra pochissimo te ne accorgerai: mi hanno detto che questa roba ha effetto immediato … Fermo, stattene lì buono e ascoltami – aggiunse trattenendomi senza fatica mentre cercavo di fare disperatamente non so cosa, dibattendomi scoordinatamente per evitare il temuto destino, mentre già l’intorpidimento si stava impadronendo di me – come ben presto imparerai, la tua padroncina non è molto paziente: io voglio tutto e subito, se ci riesco con le buone va bene … non voglio
rovinare la tua testolina di schiavetto che scrive così delle belle cose e che d’ora in poi lavorerà per soddisfare i miei capricci, ma stai bene attento – aggiunse avvicinando il viso e fissandomi con un sorriso crudele – per farti diventare ubbidiente come io voglio sono disposta a farti qualsiasi cosa, dovessi anche spremerti il cervellino con i miei piedini … Ma so che tu sarai buono; trascorreremo il fine settimana insieme, io, te e le mie pastigliette magiche, e lunedì non ti interesserà più se ti chiamo ‘schiavetto’ dinanzi ad altre persone, perché anzi non ti interesserà più di nessuno tranne che di me e farai senza pensare tutto quello che ti comando".
"Noo …" mi disperai impotente ma Aldina mise fine con uno schiaffo al mio lamento "Sì invece. Non è questo che volevi? L’idea me l’hai data tu, ed io sono la fatina che esaudisce i tuoi desideri" disse ridendo,
poi, seguendo un’improvvisa ispirazione aggiunse: "Tu che sei andato tanto a scuola, non c’era mica una fata che trasformava gli uomini in maiali?".
"Non era una fata, era una maga" risposi in modo confuso.
"E che importa? Io invece sono una fata … e una dea. Guardami, oramai sei già partito, guarda la tua fata Aldina che ti sta per trasformare in un bel porcellino, pronto ad adorarla: adorerai tutto di me, la mia faccia, il mio corpo, le dita dei miei piedini, i buchini profumati che tengo davanti e didietro. Vieni, baciami e supplicami di farti diventare il mio schiavo porcellino.
Devi dirmi: ‘Ti prego fata Aldina, fammi diventare il tuo schiavo porcellino’. Su, avanti" soggiunse, di nuovo giocosa, afferrandomi dietro la nuca e traendomi verso di sé.
Curiosamente mi sembrava di stare osservando la scena dall’esterno, come in un film la cui visione mi stava eccitando sempre più, e di cui non mi sorprendeva essere il protagonista; giunto a pochi centimetri dal viso della mia padroncina incominciai a stolidamente sussurrare l’invocazione suggeritami ed ella ridendo, mutò improvvisamente la trazione spingendo il mio capo verso il basso fino ad affondarlo in mezzo all’umidore delle sue cosce e guidandolo per i capelli per aggiustarne il posizionamento.
"Voglio sentire la lingua del mio schiavetto porcellino" ella disse, mentre fermava la presa girandosi di lato sul sedile, sollevando le gambe ed incrociando le caviglie dietro alla mia schiena: io cominciai a leccarla e supplicarla spasmodicamente senza capire più nulla, mentre Aldina altrettanto spasmodicamente si agitava e gemeva di piacere sempre tenendomi per i capelli.
Infine ella, soddisfatta, mi sollevo il capo rimirando l’ottusità della mia faccia lordata dai residui non ripuliti delle sue secrezioni, si asciugò le parti intime con la mia cravatta e digitò un numero sul telefono dell’auto, mentre mollemente appoggiava ora uno poi l’altro sandalo al cruscotto per sciogliere le stringhe di vernice.
Mentre inebetito osservavo quest’ultime srotolarsi come neri e letali serpenti che scendevano verso le caviglie della mia fatina, l’indelicatezza della donna che avevo fuggito poco prima penetrò nell’abitacolo attraverso l’impianto ‘viva voce’: "Pronto …".
"Ciao mamma, sono Aldina, volevo farti sapere che, come previsto, stasera non rientro" poi, voltatasi verso di me, ordinò "Saluta mia mamma e dille chi sei".
"Buonasera signora – ubbidii con demente prontezza – sono lo schiavetto porcellino di sua figlia, la fata Aldina". Entrambe le donne si misero a ridere di gusto, ed io ero orgoglioso di averle rese contente.
"L’hai impasticcato?" chiese la madre.
"Sì – rispose Aldina – aveva ancora qualche rimorso ed io ho pensato di toglierglielo: lunedì non ne avrà più".
"Dimmi un po’, schiavetto porcellino – disse la donna – ti piace molto mia figlia Aldina".
"Aldina è una dea, e io adoro tutto di lei: la sua faccia, il suo corpo, le dita dei suoi piedini, i b..".
"Fermo lì" intimò Aldina ridendo.
"Bravo schiavetto – replicò la madre – sai cosa devi fare? Domani è sabato, vai in una gioielleria e scegli un regalino giusto per la tua padroncina, poi, se sarai stato bravo, la sera potrete venire qui, usciremo a cena e tu potrai chiedermi la mano .. anzi no, il piedino di mia figlia".
Nello stato confusionale in cui mi trovavo la proposta era ormai troppo lunga e complessa per poterla capire immediatamente, così mi fermai un attimo cercando di trovare la risposta che avrebbe fatto felice la mia fatina.
Il silenzio che ne seguì, durante il quale Aldina mi guardava divertita agitando, ancora appoggiata alla plancia, la gamba da cui pendeva la stringa del sandalo ormai slacciato, fu interrotto dal rumore ovattato della calzatura che, scivolando dal piede, cadeva sul tappetino dell’auto.
Poi ella avvicinò l’estremità con le piccole unghie scure alla mia bocca, che io automaticamente socchiusi lasciando entrare le dita rotonde che subito incominciai a succhiare.
"Adesso non può risponderti mamma, ma mi ha detto che va bene, domani sera alle otto saremo da te. Ciao”.
nostra979
00domenica 16 gennaio 2011 14:38
Pavlovian slaves
Pavlovian slaves - Parte Seconda

Dopo aver chiuso la comunicazione Aldina mi ordinò di uscire dalla macchina e prendere il suo posto, mentre lei scivolava al volante: "Adesso andiamo a casa tua e guido io - mi disse - perché tu oramai sei fatto e non capisci più niente", quindi partì veloce e guidò a piedi nudi la potente vettura, con spericolata euforia di autocompiacimento, mentre io raccoglievo dal tappetino i sandali slacciati e li tenevo con reverenza sul palmo, pronto a farli calzare alla mia padroncina non appena giunti a destinazione.
Quando infatti Aldina ebbe parcheggiato l’auto sotto il mio appartamento, io corsi al suo sportello, lo aprii, ed inginocchiatomi
abbassai lo sguardo ai suoi piedini che, nell’uscire dalla vettura, mi sfiorarono le labbra soffermandosi a raccogliere un lieve bacio devoto prima di appoggiarsi alla suola che porgevo loro ed a cui li assicurai con i lunghi lacci.
Dopo essersi fatta mostrare la casa Aldina si accomodò in una poltrona e mi comandò di togliermi ogni indumento aggiungendo: "Adesso comincia l’addestramento vero e proprio: tu vuoi diventare uno schiavetto
ben educato, vero?".
"Si padroncina Aldina".
"Vuoi eseguire tutti i miei ordini senza farmi fare brutte figure, vero?".
"Si padroncina Aldina".
"Bene, inginocchiati allora, e toglimi di nuovo i sandali".
Io eseguii immediatamente il suo comando ed ella prese dalla borsetta un’altra minuscola pasticca, infilandosela fra le dita del piede destro, che poi protese verso di me.
"Queste ti aiuteranno ad aprire la mente e ad imparare l’ubbidienza che d’ora in poi mi devi" disse, io quindi aprii la bocca lasciando che ella introducesse il piedino, dalle cui somministranti dita sottrassi delicatamente con la lingua il secondo volume del mio abbecedario.
I farmaci di Aldina non differivano probabilmente in nulla dalle banali sostanze comunemente spacciate fuori dai locali di ritrovo, a sconsiderato uso di giovani desiderosi di esperienze ‘forti’: in altre parole eravamo ben lontani dalla scientifica manipolazione di personalità descritta nel mio originario racconto, tuttavia sia io che la mia padroncina ben sapevamo che tale manipolazione non era necessaria, giacché l’effetto eccitante e disinibente delle pasticche aveva il solo scopo di favorire il soccombere della mia mente alla vera droga già contenuta dentro di me, ovvero al deviante istinto che mi aveva portato a scrivere quelle righe, ad accettare l’imperio di Aldina, a compromettere ogni cosa, i miei rapporti, il mio lavoro, la mia esistenza per annullarmi nel capriccio di una musa il cui potere, razionalmente inspiegabile, parimenti consisteva in un istinto che si nutriva della propria stessa regale consapevolezza, oltrepassando la bellezza e la personalità di Aldina per renderla ai miei occhi un’autentica dea, più bella ed intelligente e potente di qualsiasi altra creatura.
Comunque stessero le cose sentivo, facendomi drogare, di veramente cancellare ogni mio pensiero ed ogni mia volontà per mettere il mio cervello in balia della mia padroncina, sicché veramente poi assorbivo ogni istruzione, indelebilmente iscrivendola nella mente, ed ella giocosamente improvvisava, divertendosi per i piccoli assurdi rituali testé introdotti nella nostra relazione.
In particolare Aldina, che si era eccitata nel leggere il proprio omonimo personaggio comandarmi battendo la suola o schioccando le dita, si divertì nel corso dell’addestramento ad inventare nuovi, più fantasiosi, comandi gestuali come la sorta di sbadiglio che faceva quando voleva che io mi predisponessi ad accogliere in bocca il suo piedino, come il veloce guizzo della lingua che mi induceva a prestare attenzione alla sua intimità, come la ‘O’ che con le labbra mi
indicava il suo imperioso desiderio di impegnarmi in un prolungato ‘bacio francese’ del suo regale sfintere, come — ma l’elenco potrebbe continuare — il rapido agitarsi delle dita dei piedi che non mancava mai di provocare in me un devastante orgasmo.
Molti di quei piccoli giochi vennero escogitati e per la prima volta provati nel corso di quella notte, in cui Aldina si addormentò nuda nel mio letto mentre io ancora la blandivo massaggiandola con le mani ed accarezzandola con regolari e diffusi passaggi della lingua: quando poi mi accorsi del suo respiro regolare e profondo scesi dal letto e mi stesi sul pavimento.
Avvertii allora, come in un baleno, un guizzo di autocoscienza che tuttavia non fece in tempo a venire alla luce, subito sopraffatto dall’inebriante aroma dei vicini sandali di Aldina, che io cercai con la mano e senza far rumore mi portai al viso, addormentandomi a
mia volta in preda a tale erotica ispirazione.

La mia padroncina mi aveva comunicato che, in previsione di una intensa giornata, voleva essere destata alle 9,00 ed io eseguii puntuale il mio incarico sostituendo il trillo della sveglia con una serie di piccoli baci sui piedini rotondi: Aldina, gli occhi ancora socchiusi, stirò il proprio corpo e, dopo un attimo di smarrimento,
mi fissò con divertita malizia mentre reggevo davanti a lei il vassoio della colazione.
"Voglio che faccia colazione anche tu - mi disse, dopo aver finito di mangiare — ti piace l’albicocca?"
"Si padroncina" risposi.
"Allora portami la borsetta" comandò.
Io eseguii ed ella estrasse l’ennesima pastiglia che infilò fra le labbra della vulva, poi aprì una confezione di yogurt e fece lentamente colare il liquido biancastro sulle sue seriche intimità, ove io mi accinsi avidamente a prendere la colazione: il sapore di frutta frammisto al muschiato aroma delle eccitate secrezioni di Aldina si impressero in me con orgasmica impressione centuplicata dalla sostanza stupefacente, sicché sin dall’inizio della nuova giornata ogni mio pensiero venne obnubilato dalla assoluta soggezione alla mia dea, che tanto potere aveva sul mio corpo e sulla mia mente.
Mentre Aldina osservava compiaciuta il mio stato confusionale squillò il telefono e, per non distrarmi dal delizioso compito, fu ella a rispondere: "Pronto? — ella disse — Come? … Lo chiedo io chi parla! … Paola chi? … lui al momento non può rispondere perché è impegnato a far colazione — soggiunse ridendo - poi deve accudire alla sua padroncina, comunque è impegnato tutto il giorno … Io sono la sua padroncina … Va beh stronzetta, se non la vuoi capire ti faccio parlare con lui, ma solo un minuto" poi rivolgendosi a me, che
continuavo imperturbabile ed assorto a leccarla, disse con sufficiente voce perché si sentisse all’altro capo:
"Rispondi al telefono, c’è una puttanella di nome Paola che ti cerca … comunque la tua colazione è finita, sai che non mi piace essere interrotta. Chiudi in fretta e vieni a scusarti", si alzò quindi e si diresse languidamente verso il bagno, segnando il percorso con i deliziosi residui della mia colazione che sgocciolavano dal suo regale pelo pubico.
Addolorato e mortificato per avere contrariato la mia dea mormorai "Si padroncina, scusami padroncina", afferrai poi la cornetta riversando tutta la mia frustrata collera sull’incauta telefonista che dopo pochi secondi riattaccò piangendo.
Corsi quindi a raggiungere Aldina, senza altro pensiero se non quello di farmi perdonare e mi prostrai a terra davanti a lei che aveva fatto della tazza del water il proprio trono; con la fronte a terra mostrai i palmi delle mani, perché lei non dovesse tenere appoggiati sul freddo pavimento i delicati piedini, che sfiorai con un reverente bacio in attesa che ella si degnasse di rivolgermi la parola.
Aldina fece pesare ancora un minuto di silenzio e poi ruppe la pesante atmosfera rivolgendomi la parola: "Non so se voglio tenere al mio servizio uno schiavetto che pensa ad altre donne".
"No padroncina, Ti prego — supplicai - Ti assicuro padroncina che io non ho altri pensieri ed altro scopo nella vita se non quello di servirti fedelmente e …".
"Taci — intimò imperiosa — e rispondi solo quando la tua padrona ti interpella. Chi è questa puttanella che ti ha distolto dal mio servizio?" mi chiese.
"E’ … era la mia fidanzata" risposi.
"Bene, la tua ex-fidanzata. Ed è bella? Bella come me?" proseguì sorniona.
"Nessuna è bella come te, padroncina" dissi prontamente, rassicurato dal piedino che ella prese a strofinarmi fra i capelli.
"Cerca una sua foto e portamela" mi ordinò, ed io corsi a prendere la cornice che stava nel mio studiolo domestico, in cui era contenuto un bel ritratto scattato nel corso di una recente vacanza.
Quando ritornai in bagno l’atmosfera era satura del penetrante afrore provocato dalle deiezioni di Aldina; io di nuovo mi inginocchiai tenendo innanzi a me la fotografia ed ella si alzò facendo defluire l’acqua nel water: quindi prese in mano ed esaminò la fotografia, mentre io la guardavo in trepidante attesa.
"Voglio lasciarti libero di scegliere fra me e lei — ella disse maliziosa —guarda e decidi, ma ricordati bene che una volta fatta la tua scelta non potrai più tornare indietro" appoggiò quindi il portaritratti sul coperchio del water e si voltò appoggiandosi alla parete con le mani, mentre leggermente si abbassava e divaricava le
gambe in modo che davanti a me si schiudessero le natiche sode e rotonde e mi si offrisse il tiepido e scuro buchino sommariamente ripulito da recente fragranza.
Dopo un breve silenzio ella voltò il viso: "Scegli adesso!" mi disse, arrotondando le labbra dopo la vocale fino a formare la ‘O’ del tacito comando recentemente appreso: io non ebbi esitazione alcuna ed arrotondai anch’io le labbra, facendole perfettamente combaciare con l’ano della mia padroncina prima di incominciare ad adorarlo con la lingua.

Se avessi avuto una maggiore lucidità mi sarei probabilmente ribellato all’ulteriore infima degradazione che Aldina aveva richiesto da me, inducendomi a ripudiare la mia fidanzata mentre gratificavo la mia nuova padroncina di un’appassionata adorazione anale, tuttavia nella mia pressoché incosciente libidine non solo non avevo avuto esitazione alcuna nella scelta di assoluto asservimento che il mio gesto comportava, ma avevo anche tratto motivo di orgoglio dai grugniti di soddisfatto piacere che Aldina non era riuscita a contenere mentre strofinava il sedere sulla mia faccia.
Con la mano ella si era aiutata per avere piacere anche dove la mia lingua non era impegnata: la stessa mano ella aveva poi posto a coppa per raccogliere le abbondanti secrezioni del potente orgasmo che l’aveva pervasa.
Quindi Aldina, afferratomi per un orecchio, aveva allontanato il mio capo ancora affondato nelle profumate rotondità, e si era rivolta a me con il giocoso compiacimento con cui ella sperimentava ed assaporava il proprio assoluto dominio: "E’ ora di smettere di giocare - ella disse - adesso lavati i denti e fatti la barba, che dobbiamo andare".
Accostandomi al lavello mi accinsi prontamente ad ubbidire ma quando presi, assieme allo spazzolino, il tubetto posto sul ripiano ella mi bloccò:
"Quello non serve: sei stato bravo con la tua padroncina che adesso per ricompensa ti presterà il suo dentifricio".
Fu per me un piacere vederla ridere soddisfatta mentre intingevo lo spazzolino negli umori che teneva racchiusi nel cavo della mano: un paio di sue carezze sostituirono poi la schiuma da barba ed infine, essendole rimasto un residuo vischioso nel palmo, ella mi fece
inginocchiare davanti a sé dicendo: "Sei fortunato! Oggi metterai anche il gel" e si ripulì le mani nei miei capelli.
Aldina non aveva preso con sé alcun effetto personale quando, la sera prima, aveva deciso di trascorrere la notte da me perciò, dopo che l’ebbi rivestita, si fece portare nel proprio appartamento per cambiarsi d’abito, sistemarsi e preparare i bagagli al fine di trasferirsi nella sua nuova casa.
Salii le scale con lei e, mentre sul pianerottolo ella rovistava la borsetta cercando le chiavi, dalla porta attigua al suo appartamento uscì un’anziana donna, minuta ed assai ordinata, che scambiò un freddo sguardo con Aldina, con cui evidentemente non intratteneva cordiali rapporti di vicinato.
Sulle prime non riconobbi l’azzimata signora, fu anzi ella a riconoscermi: "Ah dottore, buongiorno, quanto tempo che non la vedevo! Ho sentito parlare di lei e mi fa sempre piacere sapere che i miei studenti si sono fatti strada".
"Buongiorno professoressa" risposi, ricordando i tempi del liceo e le innumerevoli ed interminabili ore di latino in cui l’avevo vista seduta alla cattedra mentre soffrivo l’angosciante timore di un’inaspettata interrogazione: per fortuna me l’ero sempre cavata piuttosto bene negli studi ed ella aveva sempre dimostrato
una particolare stima nei miei confronti, evidentemente intatta a giudicare dalle sue parole e dall’espressione di gradevole sorpresa con cui mi si era rivolta, forse non collegandomi alla poco benvoluta vicina.
"Come sta? — continuai quindi - E’ un piacere anche per me riv…".
"Piggy — mi interruppe Aldina rivolgendosi a me con uno dei nomignoli che mi aveva recentemente affibbiato — la tua padroncina vuole che le ciucci le dita dei piedi": immediatamente cessai ogni cortesia
inchinandomi ubbidiente ai suoi sandali ed accingendomi a succhiare l’alluce di Aldina la quale, continuando a giocherellare con il bubble gum che stava masticando, rivolse un sorriso di trionfante scherno all’anziana donna.
Quest’ultima, rossa in volto per lo sdegnato imbarazzo, si allontanò frettolosa sbottando nel celeberrimo "Servi sunt" cui di riflesso - e senza interrompere il mio servizio — risposi biascicando: "Immo
homines".
Mentre ancora ridacchiava per la mia prima pubblica dimostrazione, Aldina aprì finalmente la porta ed io entrai in casa sua con eccitata apprensione, cogliendo ogni particolare dell’ambiente in cui avevo collocato la novella da cui tutto aveva preso avvio: conoscevo, per essere occasionalmente stato in un’attigua palazzina gemella, la disposizione dell’appartamento, ebbi tuttavia un emozionato guizzo nel vedere, proprio nell’angolo più in ombra del salotto, una poltrona ed una lampada a stelo.
C’era un poco di disordine, certamente non mitigato dal fatto che Aldina, dirigendosi senza indugio verso il bagno, lasciò cadere lungo il percorso gli abiti, che io raccolsi non senza inalarne l’aroma prima di ripiegarli.
Dall’interno della doccia Aldina mi diede quindi alcune istruzioni sicché fui pronto, quando ella uscì, ad asciugarla ed a porgerle gli
indumenti richiesti: sotto un abito color tabacco composto da una giacca a mezze maniche e da una gonna corta ella indossò una maglia bianca scollata ed aderente, tesa dal seno le cui fluttuazioni non venivano impedite da alcun indumento intimo; le infilai poi sui piedi nudi un paio di bassi stivaletti bianchi di pelle morbida, la cui imboccatura svasata si fermava a metà del polpaccio.
Facemmo la prima tappa presso la banca di cui mi servivo, aperta anche il sabato mattina, e ci facemmo annunciare al direttore, il quale ci accolse con la cortesia riservata ai clienti di riguardo: pur non essendo ‘ricco’, il buon avviamento del mio lavoro ed una serie di indovinati investimenti mi avevano fatto disporre di un agiato reddito e di un consistente deposito di cui Aldina, sotto gli occhi perplessi del funzionario, divenne intestataria.
Chiedemmo poi la sua prima carta di credito ed un blocchetto di assegni che le sarebbe servito per lo shopping che ella aveva in programma di fare.
In attesa dei moduli necessari rimanemmo per qualche minuto soli nell’ufficio del direttore, ed Aldina ne volle approfittare — giocosa come sempre — per guidare l’indice della mia mano destra sotto il suo vestito, infilarselo nelle scoperte intimità e poi rendermelo mentre con la bocca mimava la poppata di un lattante: non esitai a ripetere l’imperioso suggerimento succhiando via dalle mie falangi gli umori della ridente padroncina.
La seconda tappa la facemmo da un gioielliere che rimase piuttosto perplesso quando, fra altri acquisti, Aldina si fece prendere la misura delle dita dei piedi per un anello — così disse - di fidanzamento.
Adorai, nel corso di quella mattinata, l’aria soddisfatta della mia padroncina, inebriata dal proprio potere prima che dal repentino mutamento del proprio tenore di vita; adorai la musa imperiosa, che godeva per l’immediata soddisfazione di ogni suo capriccio prima che per i tributi di cui la stavo colmando; adorai il modo con cui si fermava davanti alle vetrine, indicava un oggetto, schioccava le dita e dicendo semplicemente "Lo voglio" si compiaceva della mia immediata risposta; adorai i suoi giocosi esercizi di imbarazzante tirannia, come per esempio quando, mentre sedevamo in un autosalone (Aldina si divertì a rendere reale ogni particolare della novella), ella mi disse "Piggy, credo di avere un sassolino nello stivale".
Sotto lo sguardo divertito del gestore sfilai con delicata prontezza la calzatura in cui naturalmente non vi era nulla, ella tuttavia insistette affinché, dopo aver ispezionato lo stivale, cercassi bene se per caso la pietruzza non si fosse infilata in mezzo alle dita del profumato piedino.
Avrei, fino a poco tempo prima, giudicato frivolo il minuscolo telefono cellulare o la piccola (ma assai potente e – soprattutto - alla moda!) autovettura con cui Aldina volle rimpiazzare la sua vetusta utilitaria ed ornare il proprio nuovo status; avrei ritenuto un po’ vistosi — se non proprio volgari — certi capi, seppure
rigorosamente firmati, con cui ella volle rimpinguare il proprio guardaroba: tuttavia dopo l’ammaestramento ricevuto da Aldina mi entusiasmavo per ogni sua scelta, per ogni accessorio, per quanto futile o chiassoso, che potesse far risaltare la bellezza, l’eleganza ed il potere della mia padroncina.
L’obnubilamento del mio senso critico era tale che oramai avevo fatto della mia padroncina un ineguagliabile punto di riferimento:
così, per esempio, quando ella volle provare e poi acquistare un completo — giacca e pantaloni — di pelle nera assieme ad un paio di alte ciabattine rosse, aperte in punta e ad un top dello stesso colore, pensai a quale scipita copia di Aldina fosse l’attrice che aveva reso celebre tale abbigliamento nel balletto con cui si
concludeva un vecchio film musicale americano.
Mangiammo insieme qualcosa e poi, nel primo pomeriggio, accompagnai Aldina dalla pettinatrice (anche questo era previsto dal racconto); io, secondo le istruzioni ricevute, non distaccai per un solo attimo lo sguardo dalla mia padroncina, senza tuttavia mai osare guardarla in viso, la persi anzi di vista solo per pochi minuti quando ella, richiamata la mia attenzione con uno schiocco di dita, mi mandò a prenderle una tazza di caffè.
La mia presenza attenta e servizievole fu oggetto di numerosi commenti ed Aldina si beava di cogliere i sussurri e le occhiate con cui le altre clienti facevano ipotesi sui nostri rispettivi ruoli: ad accrescere anzi il mistero ella chiese, dopo il lavaggio, di poter disporre di una saletta riservata, in cui ci appartammo assieme
ad una giovane addetta di nome Ilaria, incaricata di accudire Aldina nelle operazioni richieste.
La mia padroncina si divertì al malcelato imbarazzo della ragazza di fronte alle sue richieste ‘particolari’, ed al suo rossore quando le fu richiesto di preparare una tintura biondo platino non solo per i capelli, ma anche per le ascelle ed il pube ove Aldina manteneva una folta peluria.
Lo sgomento di Ilaria non diminuì certo allorché Aldina, dopo essersi fatta mostrare una serie di smalti per unghie in tonalità diverse ed averne scelto uno lilla, mi comandò di applicarglielo alle unghie.
La giovane osservò rapita ed ammutolita la mia devota obbedienza nello sfilare con gentilezza gli stivali, deporre un bacio leggero su ciascun piede di Aldina e poi iniziare a delicatamente rimuovere il vecchio smalto prima di applicare il nuovo colore.
"E’ … è … il suo … maggiordomo?" si fece coraggio a chiedere Ilaria provocando l’argentina risata della mia padroncina, che rispose: "Scherzi? … Lui è il mio schiavetto ... vero Piggy che sei il mio schiavetto?".
"Si padroncina, io sono il tuo schiavetto" dissi, senza distogliere l’attenzione dal mio lavoro.
"Ed ubbidisce ad ogni suo ordine?" riprese la giovane dopo un attimo di perplessità.
"Certo — rispose Aldina — se no che schiavetto sarebbe? ... Non hai mai provato ad avere uno schiavetto? – ella continuò, già pregustando un nuovo ‘gioco’ — Non ti piacerebbe averne uno?"
"Sì … certo" rispose esitante la ragazza.
"Piggy — disse Aldina seria — Ilaria è molto bella ed è mia amica: tu sai come comportarti".
Deposi allora un attimo il flacone che stavo usando e fissai per un attimo l’imbarazzata ragazza, di cui finora non avevo preso nota alcuna, assorto com’ero nella contemplazione della mia padroncina: Ilaria avrà avuto circa vent’anni, il suo viso grazioso era incorniciato da un caschetto di capelli biondi ed il suo fisico, più
sottile rispetto a quello di Aldina, era tuttavia ben formato; la sagoma dei piccoli seni a punta si intravedeva sotto l’ampio camice da parrucchiera dal cui orlo spuntava un paio di jeans attillati, i piedini sottili e curati, impreziositi dallo smalto argentato, erano uniti alla spessa suola di un paio di sandali dello stesso colore
tramite una serie di sottili striscie, anch’esse d’argento.
Mi prostrai dinnanzi a lei ed aspettai il suo comando.
"Su dai — la esortò Aldina — ordinagli di baciarti i piedi".
"Davvero posso?" chiese la ragazza in cui l’eccitazione incominciava ad affiorare dietro l’imbarazzo.
"Certo che puoi … diglielo Piggy!" rispose Aldina.
"Ogni tuo desiderio è un ordine padroncina Ilaria, io sono il tuo schiavetto ubbidiente" dissi.
"Ba … baciami i piedi" mormorò allora Ilaria.
"Subito padroncina Ilaria" risposi, raccogliendo nelle mani i suoi sandali, portandomeli alla bocca ed incominciando a rendere il dovuto omaggio.
Ella ebbe un fremito ed Aldina la rassicurò: "Sei la sua padrona ora, non devi avere paura .. Tieni, schiarisciti la voce con questa caramella e dai gli ordini con più sicurezza" aggiunse poi, togliendo dalla borsetta una delle note pasticche che tanto avevano giovato al mio comportamento.
Sotto lo sguardo divertito di Aldina l’espressione di piacere di Ilaria tradì il veloce corrompersi – aiutato dal blando stupefacente - di quest’ultima nel suo nuovo godimento di sentirsi padrona, poco dopo infatti la giovane ragazza esplorò il proprio potere con nuovi ordini, stavolta in tono molto più deciso: "Toglimi i sandali adesso e leccami bene tutte le dita, schiavo".
Soffiando sul fuoco del piacere di Ilaria, Aldina la indusse a togliersi lo scomodo camice: "Brava, adesso ordina al tuo schiavo di leccarti anche altrove" suggerì, aiutandola quindi a slacciare gli stretti pantaloni e facendomi un cenno che subito capii abbassando le mutandine di Ilaria ed incominciando a darle piacere con rapidi colpi di lingua sulla piccola vulva rosea, sorprendentemente rasata; nel frattempo Aldina, spogliatasi anch’essa, avvicinò le proprie – ora platinate - intimità alle labbra dell’ormai incosciente ed ansimante
ragazza che non esitò a ripagare la mia padroncina del piacere che io le stavo procurando.

Uscimmo in tre dall’esercizio ormai deserto: era l’ora di chiusura ed Aldina – assai lodata dalla proprietaria (che avevo generosamente ricompensato) per la nuova, vistosa, permanente – volle che la sua nuova amica, esonerata per l’occasione dal dover rigovernare il negozio, ci accompagnasse.
Seguii le due giovani donne che confabulavano tra loro durante il tragitto fino all’auto, parcheggiata nelle vicinanze, poi aprii loro gli sportelli ed Ilaria, ormai sicura nel suo nuovo ruolo, mi diede l’indirizzo di casa;
né ella mostrò imbarazzo nel porgermi il piedino per un ultimo saluto quando – arrivati a destinazione – mi precipitai ad aprirle nuovamente la portiera per farla scendere.
“A lunedì” sentii che si salutava con Aldina, scambiandosi un ultimo - poco pudico - bacio sulla bocca attraverso il finestrino aperto; poi ripartimmo e tornammo a casa mia, per prepararci alla serata.
Salii le scale carico di pacchi, ripetutamente scusandomi con Aldina che si lamentava per la mia inefficienza, poi in casa le tolsi, con la dovuta reverenza, gli stivaletti e raccolsi gli indumenti che – per abitudine ormai a me nota – ella aveva abbandonato per tutta la casa; preparai quindi i vestiti da lei scelti per cambiarsi e mi recai a chiamarla dopo aver riempito l’idromassaggio (“alla temperatura giusta, mi raccomando!”).
Stava rilassata, nuda e tranquilla, su di una poltrona del salotto, ed al mio ingresso alzò appena gli occhi dalla rivista che stava leggendo, increspando le labbra in un sorriso mentre mi ordinava di spogliarmi, di inginocchiarmi davanti a lei e di adorarla.
“Lo sai che oramai non puoi più tornare indietro, vero?” mi chiese a bassa voce.
“Si padroncina, lo so” risposi.
“E lo sai che d’ora innanzi vivrai per esaudire tutti i miei capricci, vero?” chiese ancora, ottenendo la stessa risposta.
Poi estrasse dalla borsetta, appoggiata sul tavolino a lato, l’ennesima pastiglietta: “E sai anche cosa ti succederà adesso, vero? ... Devi finire la cura!” mi disse, contemporanamente sollevando un piede per infilarsi la pillola fra l’alluce e le altre dita, e poi offrendolo davanti al mio viso perché mi perdessi suggendone la duplice ebbrezza.
Ci preparammo in fretta per non tardare all’appuntamento con i genitori di Aldina ed uscimmo, io in abito scuro e lei con uno dei vestiti che avevamo acquistato il pomeriggio in una boutique del centro; si trattava di un capo ‘firmato’ ma abbastanza semplice: una gonna lunga sul cui fondo chiaro risaltavano – in tinte pastello – grandi fiori violacei (la stessa sfumatura dello smalto che avevo nel pomeriggio applicato alle adorate unghie della mia padroncina, notai con ammirazione!) ed un top con lo stesso disegno, il tutto completato da un paio di ciabattine in pelle chiara e da un giubbino di pelle leggera – portato ‘a spalla’ - chiaro anch’esso.
Anche gli ornamenti erano abbastanza sobri: un piccolo orologio d’oro con cinturino in pella chiara, un pendaglio ed un paio di lunghi e sottili orecchini, dello stesso materiale ed ornati di piccole
ametiste violacee; non fosse stato per l’ombelico scoperto e le platinate evidenze della capigliatura e dei ciuffetti ascellari avrei detto che il lato trasgressivo ed aggressivo di Aldina si fosse quietato in una pacata consapevolezza di dominio.
Suonammo il campanello con qualche minuto di ritardo, anche perché la mia Musa si era attardata in un piccolo ‘show’ a beneficio dei passanti curiosi, attendendo in auto che le aprissi lo sportello e lamentandosi – una volta scesa - in tono petulante e civettuolo (ed abbastanza forte perchè la sentissero due signore poco distanti!) di aver dimenticato di indossare l’anello che le avevo regalato nel pomeriggio (quello al dito della mano, perchè l’altro – seppure ancora privo di incisione – l’avevo già ritirato dal gioielliere e lo conservavo nel taschino della giacca).
Stavolta venne ad aprire il padre con cui – dopo aver fatto passare Aldina - scambiai un timido reciproco “Buonasera”.
“Che buonasera e buonasera – rimproverò una voce femminile alle spalle dell’uomo – l’avvocato è di casa oramai ... venite qua piccioncini e tu, Aldina, fammi vedere cosa ti sei fatta regalare oggi dal tuo devoto ammiratore”.
“Aldina è davvero bella eh? – si rivolse quindi a me la madre – ed ha un solo difetto: quando le disubbidiscono si arrabbia da matti! Ma tu non la farai mai arrabbiare vero?”.
“No signora” risposi, mentre madre e figlia si guardavano compiaciute.
“Sì: si vede che sei un giovane ben educato ... ben addestrato oserei dire” aggiunse ridendo.
“Mamma ... lui voleva dirTi una cosa” intervenne Aldina, e poi rivolta a me “Su sbrigati che ho fame”.
Mi inginocchiai allora, secondo un imparato copione, dinnanzi al divano ove sedevano le due donne che gongolavano pregustando la scena, ed estrassi dalla custodia un anello di piccolo diametro su cui scintillava un piccolo diamante; allungai poi il braccio in atteggiamento mendico, con il palmo della mano rivolto verso
l’alto per accogliere le adorate estremità della mia educatrice.
Fui interrotto solo un attimo dal rumore di un doloroso singulto proveniente dall’ingresso, e mi voltai appena in tempo per vedersi defilare in fretta il padre di Aldina, rosso in volto, scacciato dall’occhiata di sprezzante rimprovero lanciatagli da madre e figlia.
“Non distrarti” mi intimò la madre, mentre io incominciavo a ripetere la mia lezione.
“Signora, io sono qui a chiederle il permesso di poter servire sua figlia, diventandone lo schiavo fedele” esordii.
“Mmm, non so ... tu che ne pensi Aldina? ... Guarda - disse la madre trattenendo a stento il riso – per me potresti anche andar bene, ma mia figlia è molto esigente sai? Se a lei poi non piaci ...”.
Aldina fissò i miei occhi supplichevoli per qualche secondo di interminabile attesa, durante il quale il solo rumore era quello del mio battito cardiaco, poi fece scivolare un piedino fuori dalla calzatura e me lo appoggiò sorridendo sul palmo della mano.
Io lo portai delicatamente alla bocca con un sospiro di solievo, lo
baciai ed infilai l’anello ad un dito, posando infine la suola dell’ornata estremità sul mio capo, mentre mi prostravo a terra per baciare l’altro piede.
Entrambe le donne scoppiarono a ridere, e la scena sarebbe durata più a lungo se la madre, battendo le mani, non si fosse repentinamente alzata a dire: “Tutti a festeggiare ora ... vorrai mica lasciare la tua nuova padroncina affamata?”.

Ero ormai così istupidito dalle arti maliarde di Aldina, che non mi ero neanche preoccupato di scegliere un locale in cui fossi assolutamente sconosciuto: all’ingresso – con grande compiacimento di madre e figlia – il capocameriere ci salutò con familiare deferenza, accompagnandoci personalmente al tavolo assegnato.
La scelta di una saletta un poco appartata non era dovuta alla mia – ormai inesistente – prudenza, ma alla consuetudine di assegnarmi un posto dove potessi anche trattare questioni delicate negli occasionali pranzi di lavoro che lì avevo consumato: dovevamo tuttavia, per raggiungere la stanza, attraversare tutto il locale.
La madre di Aldina, che aveva subito assunto il soddisfatto fervore di capocomitiva in quel luogo elegante, seguiva immediatamente il capocameriere, a sua volte seguita dallo schivo marito; io ed Aldina eravamo rimasti un poco indietro per depositare il giubbino al guardaroba.
Fu in quel momento che mi sentii toccare su una spalla e – voltatomi – mi trovai di fronte la persona che meno avrei voluto incontrare in quel momento.
Paola, seduta con un’amica ad uno dei tavoli della sala principale, ci aveva visti passare e mi aveva seguito sino al corridoio dove ora ci trovavamo: nonostante la mia ebete alterazione mi fece effetto vedere il suo volto – di solito ridente – così segnato dal dispiacere di non capire cosa fosse successo fra noi.
Non ebbi tuttavia il tempo di capire e reagire, nè Paola ebbe il tempo di parlare, giacché subito vidi Aldina indurire i tratti del viso nell’espressione che ben conoscevo, con le labbra sottili un poco più serrate e gli occhietti appuntiti un poco più accesi.
Ella infilò la mano nella borsetta e – con lenta ostentazione – estrasse e lasciò cadere a terra un rossetto:
“Che aspetti Piggy? ... Raccoglimelo, sbrigati!”.
Io mi abbassai ed Aldina, pronta, sfilò il piedino dalla ciabatta offrendomelo per l’adorazione, che ovviamente non si fece aspettare.
Paola era ammutolita, esterrefatta, incredula nel vedermi baciare, toccare, leccare ed adorare con estasiato e servile rapimento i piedi della mia padroncina la quale, impietosa, le diede il colpo finale sibilando: “Sparisci troietta: come vedi qui non c’è più pappa per te. Il mio schiavetto mi ha detto che gli fai schifo, vero Piggy?”.
“Si padroncina” risposi fra un bacio e l’altro.
“Si cosa?” ella ribadì.
“Quella troietta mi fa schifo, padroncina: per me esisti solo tu” (non avevo sinora mai usato simile gergo, nè certamente avrei potuto lontanamente immaginare – in condizioni normali – di usarlo con la mia ‘ormai definitivamente ex’ fidanzata!)
“Bravo – aggiunse Aldina dopo che Paola era fuggita via piangendo – sei stato ubbidiente e più tardi avrai la tua ricompensa”.
Raggiungemmo quindi il resto della comitiva ed io scostai la seggiola per far sedere Aldina. “Impara!– disse in tono di rimprovero la madre al marito – Dovevo prendermi anch’io uno schiavetto ben educato, invece che uno zotico ignorante e buono a nulla come te”.
L’uomo abbassò gli occhi ed arrossì senza rispondere.
Poi la donna – euforica e ciarliera – si mise a complimentare la figlia per il nuovo ‘look’: “Come stai bene – esordì - con quella permanente e quel colore chissà quanti cadranno ai tuoi piedi” aggiunse ridendo.
“Sicuro! – rispose Aldina – e mica l’ho fatto solo ai capelli ... guarda qui” disse alzando le braccia.
Poi, voltato il capo verso uno dei ciuffetti platinati ed inspirando ed arricciando il naso “Sarò mica già sudata!” esclamò. “Piggy ... controlla se sono già sudata”.
Avvicinai il naso al suo fragrante cavo ascellare ed ella – giocosa – estrasse la lingua e si mise ad imitare un cagnolino, muovendo il capo in finte leccate.
Subito capii e con assorta devozione detersi la folta peluria
bionda, mentre madre e figlia ridevano insieme.
“Ti devo far vedere anche il resto? - chiese Aldina scherzosamente alla madre – “Quello me lo faccio lavare dopo”.
A servirci venne un cameriere giovane (il maitre aveva forse ritenuto opportuno disfarsi del privilegio!), di cui le donne non esitarono - senza troppa discrezione - a ‘radiografare’ pregi e difetti fisici; egli si rivolse a me per le ordinazioni, ma fu sempre la madre di Aldina a prendere il sopravvento; ordinò per sè e per il marito poi passò la lista alla figlia: “Ora tocca alla festeggiata”.
Aldina si mostrò parecchio capricciosa nella scelta, espungendo via via dalla lista i cibi considerati inadatti (“Questo cosa c’è dentro? ... no, mi fa venire i foruncoli”, “Questo col nome francese ... no, i francesi mi stanno sulle balle”), ordinò tuttavia una serie completa di portate, aggiungendo infine “Per lui un’insalata mista ... poi se fa il bravo gli faccio assaggiare qualcosina del mio”.
“Anzi no, aspetta, vieni qui! – richiamò ella con autoritaria familiarità il giovane cameriere, il quale si stava probabilmente rendendo conto della ragione per cui gli era stato assegnato un tavolo generalmente a lui precluso - ... guarda qui mamma ... ‘bigoli al torchio’ per il mio schiavetto” concluse, scoppiando a ridere.
“Si , si – rincalzò la madre, sghignazzando - ... cambio anch’io l’ordinazione per mio marito: ‘bigoli al torchio’ per due, è proprio adatto a loro!”.
Ci trattenemmo seduti a lungo, ed a parte la prosecuzione ed il completamento dell’interrogatorio cui la madre di Aldina mi aveva già sottoposto nel corso del nostro primo incontro, a parte l’esposizione dei futuri progetti di madre e figlia, la conversazione fu dominata dai loro scherzetti e dalle loro risate, sempre più sguaiate, col trascorrere della serata e con il progredire delle libagioni: più volte dovetti raccogliere oggetti più o meno involontariamente caduti sotto il tavolo, più volte dovetti accudire alla mia padroncina andandole a prendere un cuscino, andando a regolare l’erogatore dell’aria condizionata, andando a chiamare il cameriere per sostituire un piatto che non le piaceva, andando ... facendo ... ubbidendo.
Pagai infine il conto, lasciai una generosa mancia (non senza arrossire) al giovane cameriere ed uscimmo:
Aldina avrebbe voluto, prima di tornare a casa, fare quattro passi per sfilare ed esibirmi nelle vie del centro, tuttavia si sentiva – come la madre – un po’ infiacchita e malferma sulle gambe, per cui risalimmo tutti in macchina e dopo aver depositato i genitori tornai con Aldina nel mio appartamento.
La mia padroncina non era ubriaca ma un po’ ‘alticcia’ sì, e ritenni opportuno – anche se dovevamo salire solo al secondo piano – usare l’ascensore: si trattava di uno di quei vecchi ascensori – abbastanza comuni nel centro storico – più pretenziosi che pratici, con stretti finestrini sulle pareti, rivestite di legno e cuoio, e con
le griglie in ferro battuto, in stile ‘liberty’, a proteggerne la tromba.
La cabina aveva da poco incominciato la salita quando Aldina – eravamo a metà fra il primo ed il secondo piano – improvvisamente schiacciò il tasto di blocco, causandone il brusco arresto.
Ormai conoscevo lo sguardo ridente e malizioso con cui la mia padroncina mi fissava ogni volta, prima di farmi compiere
l’ennesimo passo di discesa nel suo assoluto dominio, anche se stavolta – ne fosse causa l’abbondante libagione oppure la soddisfatta consapevolezza del conquistato potere – ella mi parve un poco più benevola.
Aldina mi appoggiò le mani sulle spalle, facendomi quindi con leggera pressione inginocchiare davanti a lei, mentre ella sedeva sul panchetto di cuoio rosso trapuntato della cabina, poi incominciò a parlarmi.
“Non sono stronza come sembro” esordì, subito zittendo le mie proteste e tappandomi ermeticamente la bocca con la mano, mentre scuoteva energicamente la mia faccia e col pollice premeva il mio naso fino ad
occludere anche le narici.
“Taci ed ascolta quando la tua padrona ti parla, hai capito?”
Il mio debole gesto non dovette bastarle perchè ella ancora mi chiese “Capito?”, ottenendo stavolta un energico scuotimento del mio capo, dovuto alla mancanza di ossigeno prima ancora che dal desiderio di
assentire.
Ella mi liberò la bocca e dopo qualche profondo respiro mi scusai con lei, prima che ella proseguisse: “il fatto è che tutto questo mi piace, mi piace moltissimo: non sono solo i tuoi regali o la mia nuova vita, è il potere, lo capisci?”.
Rinnovai il cenno di assenso ed Aldina continuò “forse non ti rendi conto di quanto il tuo racconto sia stato una rivelazione per me: anche mia madre – l’hai visto – ha sempre dominato mio padre, ma per loro è una cosa diversa: lui è un povero diavolo, un debole, una preda facile, e comunque l’autorità di mia madre su di lui è ben lontana da quello che io ho ottenuto: io sono la tua padrona, la tua dea, non è vero?”.
“Si padrona Aldina” risposi.
“E poi?” insistette.
“Si dea Aldina” ribadii.
“Bravo – sorrise – sapessi quanti ne ho visti ogni giorno passare nel negozio dove lavoro a darmi ordini: magari tu non sei dei peggiori, magari tu chiedi col sorriso, però Aldina deve, anzi doveva!, correre per soddisfare i clienti e non essere rimproverata da quel grandissimo stronzo del suo capo, ed ora eccoti qui in ginocchio ad adorarmi. Sapessi quanto mi sono divertita a giocare col tuo prezioso cervellino”.
Poi, repentinamente esaurendo lo sfogo confessorio e tornando alle fantasie un po’ giocosamente perverse in lei frequenti “Ti piace stare qui? Correre il rischio che tutti ti vedano?” chiese.
“A me piace stare dove tu comandi padroncina” risposi.
“Bravo! – rispose ridendo – ti ho fatto diventare un vero leccaculo, ma non solo quello, guarda qui” disse, sollevando la lunga gonna ed appoggiando i piedi sulla barra d’ottone che correva lungo la parete opposta della stretta cabina.
Rimasi a fissare come ipnotizzato le sue disvelate intimità, libere da biancheria intima, mentre ella si dondolava mollemente avanti e indietro sulle natiche, scrutando con un sorriso malizioso il mio viso assorto in contemplazione della seta dorata che le ricopriva la vulva. Mi afferrò poi le orecchie ed al comando secco:
“Lingua!” io seppi cosa dovevo fare, mentre ella cominciava a gemere guidando la mia testa come strumento del suo piacere.
Non ci interrompemmo quando si accese la luce delle scale e qualcuno bussò ad una delle porte di piano dell’ascensore: poco dopo due giovani (li intravidi con la coda dell’occhio) scalpicciarono sulle scale e cercarono di soddisfare la curiosità sbirciando attraverso la grata metallica e le strette feritoie della cabina.
Non penso potessero riconoscermi, data la fioca illuminazione ed il tipo di servizio che stavo rendendo alla mia musa, ad ogni modo non me ne curai, essendo in quel momento la soddisfazione di Aldina al vertice di tutti i miei pensieri.

Adorai la mia padroncina anche quando, usciti dall’ascensore, la vidi procedere in molle trionfo nel vestibolo dell’appartamento, un po’ stanca ed un po’ euforica ancora, mentre – secondo acquisita consuetudine disseminava gli indumenti nella scia del lento ancheggio; stavo pregustando, nel serrare il chiavistello della porta d’ingresso, il riposo ristoratore da quella troppo intensa giornata, quando fui aggredito da un insulso motivetto proveniente dalla borsa che stavo raccogliendo dal pavimento.
“Qua” fu il laconico comando Aldina, ed io le porsi la pochette da cui trasse il minuscolo telefono acquistato il giorno stesso: la sentii ridere e – con crescente disappunto – colsi le parole “... va bene ... il tempo di cambiarmi ... a tra poco”; poi ella chiuse la comunicazione e si rivolse a me: “Sbrigati ... i miei stivali che
dobbiamo uscire ancora”.
Si sedette al bordo del letto aspettando che io le portassi quanto richiesto mentre ancora giocherellava con il telefonino; io mi appressai e mi inginocchiai a sfilarle con reverenza le ciabattine, porgendole nel contempo un paio di stivali neri, alti e lucidi sopra il tacco di metallo sottile.
“Anche le calze scemo ... nere; devo proprio spiegarti tutto?” commentò distratta Aldina, provocando le mie immediate scuse mentre rovistavo tra la biancheria nuova in attesa di sistemazione nei miei cassetti.
Mi accinsi infine ad infilare un paio di velati collant sul piedino che ella, in vena giocosa, continuava a muovere per rendermi il compito più difficile.
Ti prego Padroncina, ferma il Tuo delizioso piedino un attimo ... oops, scusa, si è rotta” esclamai mortificato mentre dal velo lacerato della calza infilata per metà sporgevano le dita nude di Aldina.
“Sei proprio un incapace - ella esclamò, premendomi sulla bocca il piede da cui penzolava il residuo di collant – fermo così ... lingua fuori ... in mezzo alle mie dita ... bravo così ... fermo ...” ‘clic’ sentii scattare il telefonino puntato verso di me, mentre Aldina rideva compitando sulla minuscola tastiera
“s... t... o... a... r...r... i... v... a... n... d... o..., fatto!”.
“Dai sbrigati ... un altro paio ... e sta più attento questa volta” comandò.
“Si Padroncina, subito Padroncina, scusami Padroncina” replicai.
Ci recammo in un locale che ella conosceva e lasciai le chiavi dell’auto al parcheggiatore, appressandomi ad una pretenziosa pensilina neoclassica ove due energumeni facevano entrare a piccoli gruppi le persone in coda: ero l’unico ad indossare la cravatta notai, ma certo nessuno ci fece caso, considerato anche l’abbigliamento di Aldina quale, sopra i lunghi stivali, indossava un assai succinto completino di pelle nera, provvisto di ampi ‘spacchi’ che lasciavano scoperta la maggior parte del corpo, l’attaccatura del seno,
l’ombelico, i fianchi e la schiena; anche il trucco era piuttosto pesante, in stile ‘dark Lady’, e per completare l’effetto ella mi aveva ordinato di ridipingerle le unghie con uno smalto nero perlato.
Avrei preferito confondermi fra la fila piuttosto che – come invece avvenne – sentirmi d’un tratto calorosamente chiamare da un individuo piuttosto tozzo ed abbastanza buffo nel suo vistoso completo rosa
shocking (“ora siamo in due con la cravatta” notai ironicamente fra me e me), che mi veniva incontro dopo essere uscito dal locale:
“Buona sera avvocato ... che sorpresa! Finalmente è venuto a trovarci! A che dobbiamo l’onore? ... Ma che fa qui in fila? Venga, mi segua ... E’ con lei questa meravigliosa fanciulla?” mi disse in logorroico turbinio accompagnato da amichevoli quanto sgradite pacche sulla spalle e rivolgendo infine l’attenzione ad Aldina, che sorrideva soddisfatta.
Ricordai quando – circa un anno prima - avevo conosciuto il mio bizzarro anfitrione, inguaiato all’epoca per certi problemi legali, che avevo fatto seguire da un mio collaboratore non volendo accollarmi personalmente l’ingombrante cliente: quest’ultimo – nonostante l’evidente colpevolezza – era stato completamente assolto
grazie anche ad una serie di fortunate combinazioni e mi aveva da allora (con mio scarso entusiasmo) ripetutamente esternato la sua gratitudine, invitandomi più volte a visitare il suo locale (ecco perché il nome mi sembrava famigliare!).
“Le faccio subito preparare un bel tavolo – proseguì inarrestabile l’uomo - naturalmente Lei e la sua amichetta siete miei ospiti”.
Troppo stanco per ribellarmi alla pubblicamente conclamata familiarità ed all’appellativo con cui egli la estendeva ad Aldina (la quale tuttavia non sembrava essersene offesa) lo seguii rassegnato, oltrepassando le persone in fila con grande soddisfazione della mia Padroncina che ricambiava tronfia le occhiate incuriosite;
entrammo quindi in una semioscura e pacchiana profusione di marmi e specchi, non certo resa più gradevole dalla calca, dal fumo e dalla musica ad alto volume.
Una provvidenziale telefonata ci liberò dal nostro accompagnatore il quale, fra mille scuse, incaricò un imponente commesso dai capelli raccolti in lunga ‘coda di cavallo’ di accompagnarci ‘al solito tavolo’ (“solito per chi – continuai a biasimare fra me stesso – se è la prima volta che vengo?”), ove poco dopo un altro inserviente ci raggiunse portandoci una bottiglia affondata in un secchiello di ghiaccio.
“Altri due bicchieri – comandò Aldina, perfettamente immedesimatasi nel ruolo - ... aspettò amiche”, poi ella si allontanò intimandomi di attenderla.
Ritornò qualche tempo dopo in compagnia di due ragazze che si misero a scrutarmi divertite: Babi (forse Barbara?) era un poco più alta di Aldina ed aveva un fisico elegante, impreziosito da certa civettuola cura nei
dettagli: l’acconciatura di taglio un poco maschile e ‘sbarazzino’ lasciava luccicare la serie di orecchini che le ornavano il padiglione ed il lobo dell’orecchio sinistro, mentre l’attillato completino metteva in risalto le perfette sinuosità del suo corpo, appoggiato sopra un bel paio di sandali stringati.
Ale (da me già conosciuta come Alessandra) aveva frequentato per breve tempo il mio ufficio per sostituire un’impiegata infortunatasi: aveva più o meno la statura di Aldina ed un caschetto mogano sopra due occhi
vispi; stentai un poco a riconoscerla nell’abbigliamento un po’ ‘spinto’ di quella sera, composto da un vestitino bianco quasi altrettanto succinto di quello di Aldina, completato da un paio di ciabattine aperte dello stesso colore, riconobbi però subito lo sguardo penetrante e l’atteggiamento piuttosto imperioso che –
ricordavo – non l’aveva resa molto gradita alle colleghe, sicché non avevo ritenuto opportuno prolungarne l’incarico.
Fu quest’ultima a prendere la parola per prima, senza raccogliere la mano che avevo proteso alzandomi per le presentazioni: “Sei contento di rivedermi?” chiese, in tono un po’ ironico.
“Certo Alessandra ...” sorrisi.
“Allora baciami i piedi” mi interruppe brusca.
Rivolsi uno sguardo interrogativo ad Aldina la quale si limitò a fissarmi divertita.
“Mica l’hai svegliato tanto l’avvocatino – disse Ale alla mia padroncina – lo facevo più ubbidiente”.
“Io ... scusate ... non so se”, tentai imbarazzato di dire qualcosa.
“Taci! – mi interruppe con decisione Aldina – vuoi farmi fare delle figuracce con le mie amiche? Ale ti ha dato un ordine”.
Mi inginocchiai allora fra il basso tavolino ed il divanetto su cui le tre amiche si erano nel frattempo accomodate, cercando di convincermi che in tale penombra nessuno avrebbe scorto quanto succedeva, e
protesi la mano su cui Ale fu lesta ad appoggiare la soffice pianta del piede nudo: “Bravo schiavo – mi disse con occhi scintillanti di piacere – ora portatelo alle labbra con devozione: il mio piedino è sacro per i vermi come te”.
“Si Ale” mi accinsi ad ubbidire.
“Padrona Ale, schiavo” mi corresse.
“Scusami Padrona Ale” e le baciai le dita con delicato trasporto.
“Ora saluta anche Padrona Babi” ordinò Aldina, continuando ad osservarmi divertita.
Delle tre Barbara sembrava quella un poco più restia e ridacchiava imbarazzata mentre le stavo inginocchiato davanti.
“Prima versaci da bere”, prese tempo.
Eseguii quanto richiesto e porsi a ciascuna un flute scintillante di bollicine; “Tu non hai sete?” mi chiese Barbara vedendo che avevo riempito solo tre calici.
“No Padrona Babi, grazie” risposi sorridendo all’inattesa cortesia.
“Si che hai sete invece, guarda - disse, inclinando un poco il bicchiere e facendo cadere un poco del liquido paglierino sulla punta delle dita – e lecca ... subito!” aggiunse di fronte alla mia brevissima esitazione, ed io obbedii pronto, cercando di non pensare all’umiliazione mentre le tre amiche ridevano di gusto per la
‘trovata’.
“Ora abbiamo un po’ da chiacchierare, puoi farti un giro se vuoi, ma passa ogni tanto di qui che se abbiamo bisogno ti chiamiamo” disse Aldina.
Mi diressi allora verso il bar, dal quale si poteva discretamente (oscurità e fumo permettendo!) tenere d’occhio il tavolo, mi sedetti quindi al bancone ed ordinai un gin–lemon ad una mora riccioluta che –
indaffarata com’era – mi diede retta appena.
Non avevo ancora assaggiato la bevanda che ritornò il mio incubo rosa, venendo a sedersi accanto a me e subito appoggiandomi una mano sulla spalla da vecchio amico quale si riteneva: “L’avvocato è mio ospite Dani – disse, rivolto alla ragazza del bar – mi raccomando, trattalo bene”, un veloce sguardo annoiato fu la risposta.
“Bella ragazza Dani vero? - mi disse in tono interrogativo-assertivo – l’ho trovata che lavorava in un autogrill” aggiunse, con l’aria di un talent-scout che ha appena fatto vincere l’Oscar alla sua pupilla.
“Anche la sua amichetta comunque non scherza, anche se l’ultima volta mi sembrava diversa” proseguì l’irrefrenabile, accompagnando il punzecchiar di gomito con una strizzata d’occhio ed una risatina complice.
Ascoltavo distratto le sue ciarle mentre, voltato verso la pista, osservavo Aldina la quale, scesa a ballare, ‘faceva la stupida’ con un ragazzotto dai folti capelli impomatati: si avvicinava, si mostrava, sorrideva e poi si ritirava, accendendo l’ardore del giovane, rubizzo in volto un po’ per la calura ed un po’ per la fierezza della pregustata conquista.
“Non ci badi: si vogliono divertire” disse il mio ospite che, seguendo il mio sguardo, aveva scambiato per gelosia quella che era invece apprensione per le incontrollabili follie della mia Musa.
“Se vuole divertirsi anche lei non ha che da dirmelo” soggiunse malizioso.
Poi vidi improvvisamente la mia volubile Musa rivolgersi incollerita al suo corteggiatore, subito dopo volgendogli le spalle ed allontanarsi lasciandolo nel mezzo della pista sbigottito dal cambio di umore e ferito nell’amor proprio.
“Mi scusi” dissi, allontanandomi repentinamente dal mio ospite quando vidi che il giovane stava seguendo Aldina verso il nostro tavolino con fare bellicoso.
Raggiunsi entrambi ai bordi della pista da ballo, mentre Aldina si rivolgeva stizzita al giovane che tentava di fermarla: “Tieni giù le mani zotico, sono mica tua sorella ... ah, eccoti – disse poi scorgendomi – non ci sei mai quando servi.
Spiega a questo somaro come si tratta una signora”.
Cercai imbarazzato di placare le acque ma la collera del giovane offeso si rivolse ora verso di me, incominciando anche ad attirare l’attenzione dei circostanti.
“Cerchi di controllarsi e badi a quello che dice” intimai all’adirato ballerino che, non pago degli improperi, mi si era accostato aggressivo.
“Adesso ti spacco la faccia” lui rispose diplomatico, mentre alzavo il braccio a parare un violento pugno giusto un attimo prima che entrambi fossimo strattonati indietro e separati dai due energumeni che avevo
visto all’ingresso.
“Mi lasci – dissi al ‘buttafuori’ – non ho intenzione di litigare con nessuno” mentre riprendevo fiato e mi aggiustavo l’aspetto scompigliato.
Il colosso allora aiuto il suo collega a ‘trainare’ fuori dall’uscita di sicurezza il mio focoso avversario cui sembrava più difficile far sbollire la collera.
“Che fa avvocato? Fa pure a pugni adesso? Suvvia, non è da lei!” mi sentii apostrofare alle mie spalle dal colorato gestore, cui ero troppo stizzito ed imbarazzato per rispondere.
Nel frattempo avevo raggiunto Aldina, cui ritenni opportuno non chiedere nulla, mentre lei non sembrava aver voglia di conversare:
Alessandra e Barbara dovevano essersi allontanate e probabilmente non si erano accorte di nulla, dato che non erano più lì.
“Sbrigati, andiamo a casa che sono stanca” disse Aldina con mio malcelato conforto.
“Non salutiamo le Tue amiche?” chiesi.
“Non preoccuparti che avrai ben presto occasione di farlo” ella rispose, senza che io approfondissi il velato messaggio.
Salutammo quindi velocemente il nostro ospite rosa (“Mi raccomando – egli disse – vi aspettiamo ancora”) e ci facemmo portare l’automobile. Nell’abitacolo ovattato la mia Padroncina parve ritrovare un po’ di
conforto all’inspiegata ombrosità, mentre si rilassava sprofondandosi nel cuoio dei sedili; sentii poi la lunga cerniera ed il risucchio mentre ella si sfilava gli stivali con un sospiro di piacere.
“Guarda qui, mi tocca fare anche il tuo compito! - riprese un poco scherzosa – Sono belli ma preferisco stare così” aggiunse, appoggiando i piedini velati sul cruscotto.
“Questa li fa i duecento, vero?” aggiunse poi, definitivamente tornando al suo umore consueto.
“Si, penso anche qualcosa in più” risposi sollevato.
“Fammi vedere” disse decisa.
“Ma non si può – risposi – ... è pericoloso ... è tardi ... siamo su una strada statale”.
“Ho detto fammi vedere schiavetto – ribadì con il ben noto sguardo appuntito mentre, voltatasi con tutto il corpo nella mia direzione, appoggiava un piedino sui miei pantaloni già rigonfi – e tu ubbidirai!”.
Un sommesso scatto metallico proveniente dal selettore automatico del cambio seguì l’affondo dell’acceleratore, mentre il motore cambiava repentinamente tonalità e la macchina schizzava avanti: non eravamo ancora tuttavia a metà della rabbiosa (e stupida!) progressione quando spuntò alla nostra destra una paletta che mi intimava di fermarmi.
“Voglia di correre eh? - mi apostrofò l’agente della Stradale affacciatosi al finestrino – Favorisca patente e libretto”.
“Ha ragione – risposi – ma non andavo forte, siamo appena partiti”.
“Comunque la sua ragazza non indossa la cintura” rincarò la dose il poliziotto.
“Non sono la sua ragazza, sono la sua Padrona” ribatté Aldina seccata.
“Per favore Aldina ...” mi rivolsi alla mia Musa che non aveva ancora riportato il piedino dalla sua parte.
“Ci scusi – cercai poi di tranquillizzare il perplesso agente, mentre mi protendevo ad allacciare la cintura di Aldina, muta ed ostile – è tardi e siamo un po’ stanchi, comunque abitiamo qui vicino e le prometto che torniamo a casa tranquilli”.
Il ‘nostro’ poliziotto era di quelli comprensivi e – fosse misericordia per il mio imbarazzo e/o malavoglia di approfondire la curiosa situazione – mi restituì i documenti: “Va beh – disse - per stavolta non le faccio contravvenzione, ma lei signorina, fidanzata o Padrona che sia – non rinunciò alla battuta – tenga la cintura
allacciata e lei vada piano” concluse a me rivolto.
Ripartimmo quindi verso casa ed io guidai con prudenza, voltandomi di tanto in tanto verso la muta Aldina; parcheggiai quindi nella rimessa ed andai ad aprire lo sportello alla Padroncina, continuando a spiarne lo sguardo per capire se era in collera con me.
“Mettimi gli stivali e chiedimi scusa” mi disse.
“Va bene Aldina, scusami”, dissi.
Mentre tuttavia mi accingevo, chinato, ad infilarle le lucide calzature.
“Non subito – intimò – prima masturbati mentre guardi il mio piedino”.
“Aldina ... Ti prego ... è tardi” balbettai.
“Schiavo, obbedisci alla tua Padrona” replicò asciutta.
Mi inginocchiai allora sul pavimento freddo della rimessa aprendo la cerniera dei pantaloni ed incominciando a toccarmi mentre fissavo il piedino dondolante di Aldina: in breve giunsi sull’orlo dell’orgasmo.
“Solo quando te lo comando io” mi prevenne Aldina fissandomi negli occhi.
“Prima ripeti: ‘il mio piacere è obbedire alla mia Padroncina’ avanti”, comandò.
“Il mio piacere ... è ... Ti prego, non posso più resistere” supplicai.
“Dillo!” intimò.
“Il mio piacere ... è obbedire alla mia Padroncina; il mio piacere è ...” obbedii.
“Ora ho il completo controllo su di te vero? Sei completamente mio, mente e corpo, vero? Dillo” intimò nuovamente.
“Si Padroncina ... Tu mi controlli completamente, io ... io ... Ti appartengo ... mente e corpo, tutto” risposi, oramai completamente dfuori controllo.
“Bravo, ora al mio ‘3’ puoi lasciarti andare e gridare ‘Aldina è la mia Dea’” proseguì il giochetto.
“e 1 ... e 2 ... e 2 ½ (risolino) ... e 3, vieni, ORA!” comandò eccitata anch’ella, mentre io erompevo senza più
nessun controllo.
Trascorse in silenzio qualche secondo, poi ella chiese “Ti è piaciuto?” mentre ancora ansimavo inginocchiato.
“Guarda, guarda – aggiunse, osservandosi la punta del piede - mi sa che mi hai anche sporcato un pochino il collant nuovo, ma ora me lo pulisci vero?”
“Si Padrona Aldina” risposi, abbassando la lingua sulla punta del suo piedino proteso.
tuttosegreto
00domenica 16 gennaio 2011 16:55
grazie mille!
questa storia l'avevo letta qualche anno fa e mi era piaciuta tantissimo e il sito Storiesh non lo trovavo più da anni!!
grazie nostra979!!!
nostra979
00domenica 16 gennaio 2011 22:40
figurati...quando si può essere utili...:)
zazaloz
00mercoledì 19 gennaio 2011 16:33
era sul gruppo yahoo di madame hypnose!
colorfeet
00giovedì 20 gennaio 2011 11:57
Anche io visitavo spesso il sito storiesh, poi un giorno è scomparso. Ilracconto pavlonian Slaves è stupendo, anche se è datato direi che è intramontabile.
pingone.
00giovedì 20 gennaio 2011 13:13
pavlov è stato un incubo alle superiori
zazaloz
00giovedì 20 gennaio 2011 16:16
in che senso un incubo??
nostra979
00giovedì 20 gennaio 2011 17:05
@Colorfeet
beh...ora lo puoi ritrovare...non ho mai capito xke ha blindato il tutto con la pwd...ma tant'è...:)
phate81
00venerdì 21 gennaio 2011 00:56
questo racconto è uno dei miei preferiti...mi fa impazzire!!!
colorfeet
00mercoledì 26 gennaio 2011 11:20
già sono andato a visitare il sito hoscaricato il file ma senza password ...
zazaloz
00mercoledì 26 gennaio 2011 12:01
ma dov'era questa password?
tazzo87
00mercoledì 26 gennaio 2011 15:46
Re:
pingone., 20/01/2011 13.13:

pavlov è stato un incubo alle superiori




ci pui dire dire xkè un incubo?!!!!!grazie...cmq è veramente bello questo racconto....specialmente l'ultima parte....!!!!
(KILLER)
00venerdì 28 gennaio 2011 20:35
......CHI SA LA PASSWORD PER APRIRE I RACCONTI?......GRAZIE
nostra979
00giovedì 10 febbraio 2011 18:23
la password è o almeno dovrebbe essere *******
caso mai...giusto per non fare la figura di quelli che arraffano...mandate una mail al tipo che gestisce il tutto...alla fine..se anche lui riparte col pubblicare racconti ci guadagnamo un po' tutti...:)


Regolamento Aroand Femdom Forum

COSE DA EVITARE ASSOLUTAMENTE

D. E’ vietato postare o richiedere password o indicare modalità per eludere l'accesso di siti a pagamento (ovvero FRODE)

Baz Luhrmann
00venerdì 11 febbraio 2011 10:17
(KILLER), 28/01/2011 20.35:

......CHI SA LA PASSWORD PER APRIRE I RACCONTI?......GRAZIE



Ma che è 'sta novità?
Anche se suppongo non sia un sito a pagamento, quello a cui vi riferite, però qui da NOI abbiamo un REGOLAMENTO che parla chiaro:

Regolamento Aroand Femdom Forum

COSE DA EVITARE ASSOLUTAMENTE

D. E’ vietato postare o richiedere password o indicare modalità per eludere l'accesso di siti a pagamento (ovvero FRODE)

(KILLER)
00venerdì 11 febbraio 2011 18:39
......SORRY......
nostra979
00lunedì 7 maggio 2012 19:13
Baz Luhrmann scusami tanto..ma vorrei contestare questa segnalazione..primo perchè il sito in questione NON è a pagamento...e secondo perchè ho espressamente detto cmq di scrivere al tipo in modo da fargli sapere che qualcuno prende il materiale.

Non è per fare polemica...ma tanto per essere precisi.
zazaloz
00mercoledì 9 maggio 2012 01:27
in effetti sono d'accordo con nostra979
subfeet
00mercoledì 9 maggio 2012 02:38
Scusate ragazzi ma è inutile che vi rivolgete a Baz Luhrmann , non lo sapete che non è più Amministratore dell' ArOuNd Femdom Forum e neanche Moderatore ormai da diversi mesi ?

Adesso casomai dovete rivolgervi all'Amministratore servetto70 - Poi ci sono il vice amministratore theboogeyman0 e i moderatori Matt70 - zerbinopermiss - pio.M
zazaloz
00mercoledì 9 maggio 2012 17:19
vabbè penso che leggeranno il post!! :)
kappa61
00domenica 13 maggio 2012 12:31
Messaggio in attesa della convalida dei moderatori
efcharis
00lunedì 21 maggio 2012 12:08
Se ho ben capito, ci sono altre storie di questa autore sul sito storiesh? È ancora in linea? Io non riesco a trovarlo
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