Pavlovian slaves

nostra979
00domenica 16 gennaio 2011 14:32
Prima parte
Premetto che il racconto non l'ho creato io..ma è di una tale bellezza (almeno per me) che mi sembra giusto proporlo dato che non l'ho trovato qui.

Questo e una buona quantità di altri racconti li potete trovare nel sito sites.google.com/site/storieshhard/

Pavlovian slaves
Cap.I – Il racconto (libera traduzione modificata ed ampliata dell'omonimo contenuto in:
www.asstr.org/files/Collections/Eli.The.Bearded/stories/bond/pavlovian_sla... )
‘Quando aprii gli occhi la mia visione era distorta, mi sentivo strano, con la testa 'ovattata' e non riuscivo a pensare con chiarezza.
Ricordavo vagamente un colloquio con una donna, ma non ricordavo chi quella donna fosse, né capivo dove mi trovassi o come avessi fatto a trovarmi dov'ero.
D'un tratto avvertii una mano che mi scuoteva la spalla: "Ti stai svegliando?" una voce femminile mi chiese, "Su dai, svegliati".
I miei occhi cominciarono a mettere meglio a fuoco e vidi Aldina che si stava rivolgendo a me.
Tentai di alzarmi ma qualcosa mi tratteneva e non riuscivo a muovermi.
"Bene - ella disse - finalmente sei sveglio: ti ho drogato, per cui può darsi che ti senta un po' confuso".
Poi lasciò la stanza ed io richiusi gli occhi cercando di pensare: "Forse sto sognando" pensai, scuotendo la testa.
Incominciai quindi a guardarmi intorno: ero seminudo e le mie braccia, i miei polsi e le mie caviglie erano stati assicurati tramite robuste bande di velcro ad una sedia da dentista.
Ricordai vagamente di essermi recato a casa di Aldina, che conoscevo da tempo senza tuttavia andare oltre il semplice saluto: ella mi aveva richiesto un consulto, chiedendomi di poterci incontrare a casa sua, anziché nel mio studio, perché l'argomento era piuttosto riservato e lei non voleva che nessuno la vedesse entrare da me.
Rientrò tenendo in mano una specie di collare sottile e cromato. "Cosa diavolo hai intenzione di fare?" le chiesi, pensando che si trattasse di una sorta di strano e non divertente gioco.
"Era ora che ci svegliassimo completamente!" Aldina commentò senza rispondermi.
"Liberami - dissi - cosa sta succedendo?".
"Stai buono - rispose - e ben presto saprai tutto". Premette poi un pedale alla base della sedia facendola reclinare e si accinse ad allacciarmi il collare.
Io tentai di fermarla ma - immobilizzato com'ero - non potevo
fare nulla: "Senti - le dissi - questa storia è già andata avanti troppo: apprezzo il divertimento ma adesso è ora ...".
Aldina fece un sorriso di commiserazione ed, afferrandomi con decisione per i testicoli, mi interruppe secca:
"Non è un gioco, e tu farai quello che ti dico io".
In quel momento considerii quanto fosse bella: dimostrava ventisette o ventotto anni, la sua non altissima statura metteva in risalto il corpo ben formato, avvolto in un abito azzurro corto e scollato ed impreziosito dalle eleganti scarpe bianche a tacco alto con calze a rete dello stesso colore.
I lunghi capelli castani, raccolti all'indietro in una crocchia sopra il capo, lasciavano sfuggire due sottili ciocche che incorniciavano
sia le minuscole orecchie, agghindate da un paio di lunghi pendenti, sia la fronte alta, sotto la quale due piccoli occhi scuri ed appuntiti mi guardavano con curiosità.
Il naso era piccolo e graziosamente rialzato, le labbra erano crudelmente sottili.
La vista del suo corpo sinuoso e della sua provocante bellezza, nonostante le circostanze, mi stava eccitando: poi lei strizzò con forza i miei testicoli, facendo sparire ogni mio pensiero.
Ella assicurò dunque lo strano oggetto intorno al mio collo, facendolo chiudere con uno scatto metallico ed un breve suono elettronico, "Così va meglio" disse, facendo quindi rialzare la sedia in modo che io potessi vedermi riflesso nello specchio appeso di fronte a me.
"Voglio che ti dia un'occhiata" proseguì, togliendone il drappo che lo copriva, ed io mi vidi con il collare, da cui una piccolo diodo luminoso lampeggiava, mentre sul mio torace era stata indelebilmente tatuata la scritta: "Schiavo della dea Aldina".
"Bene - ella mi disse - cosa ne pensi?".
"Penso che è una cosa pazzesca e ridicola" risposi.
Di nuovo ella sorrise di commiserazione ed, avvicinatasi a me, mi diede uno schiaffo di una violenza tale da farmi sentire rintronato; feci per dire qualcosa ma ella mi percosse nuovamente, forte, per tre o quattro volte, rimasi quindi sbigottito e silenzioso, la mia rabbia completamente domata.
"Non c'è proprio nulla di ridicolo - disse Aldina - stai molto bene così. Non è vero?"; io non risposi ed ella mi colpì nuovamente, facendomi gridare di rabbia e di dolore.
"Ti piace il tuo nuovo aspetto?" chiese nuovamente.
"Si, certo!" stavolta prontamente risposi, temendo la sua reazione.
"Dillo" comandò.
"Così sto proprio bene" risposi.
"Bravo!" mi disse sorridendo.
Poi si piegò su di me e mi baciò con ardore, esplorandomi la bocca con la lingua, mentre con le dita mi accarezzava i capezzoli.
Il mio pene subito si rizzò: non volevo mostrarle il mio eccitamento ma non potevo farci nulla ed Aldina, vedendo il mio sconforto, nuovamente sorrise.
Poi reclinò la sedia fino a farmi sfiorare il pavimento con il capo e slacciò il mio polso destro, in modo che potessi raggiungere il mio corpo, senza tuttavia arrivare agli altri lacci per liberarmi.
"Adesso voglio che pensi a me e ti masturbi" mi disse.
"Cosa?" esclamai incredulo,
Senza preavviso ella premette una suola sulla mia faccia schiacciandomi fino a soffocarmi: "Ti ho già detto che tu farai quello che io ti dico senza discutere. Chiaro?" mi aggredì.
"Si" respirai, quando sollevò la scarpa.
"Allora incomincia" ordinò.
"Molto bene" poi aggiunse, vedendo che io incominciavo ad accarezzarmi nelle parti intime quindi, sfilandosi una delle bianche calzature stese il piedino ben tornito ed incominciò a sfiorarmi delicatamente le labbra con le dita inguainate.
Vedevo trasparire le piccole unghie di colore acceso e senza potermi
controllare sentivo avvicinarsi l'orgasmo.
"Aprì la bocca" Aldina comandò, e non appena lo feci ella infilò le profumate dita fra le mie labbra.
"Ora succhia" mi disse, mentre le agitava delicatamente.
Ubbidendole fui invaso da un'ondata di piacere e - chiusi gli occhi - ebbi un violento orgasmo: senza più ragionare continuavo a succhiarle avidamente le dita, mentre dal pene mi fuoriusciva una colata calda.
Aldina rimosse lentamente il piede dalla mia bocca e, ridacchiando, intinse le dita nei miei umori, le asciugò poi sul mio viso porgendole infine nuovamente alle mie labbra perché venissero completamente ripulite: io la assecondai imbarazzato ed umiliato, ancora scosso dall'intenso piacere che avevo provato.
Da un tavolino ella prese poi una siringa ed, infilandomela nel braccio mentre la guardavo impaurito, mi rassicurò: "Questa non ti farà male: dormirai solo un po', ed al tuo risveglio ti spiegherò tutto"; caddi in un sonno profondo mentre ancora i suoi tacchi si allontanavano.
Ebbi un sogno confuso in cui mi rivedevo entrare nell'appartamento di Aldina che mi faceva accomodare in salotto: chiacchieravamo un poco e, mentre stavo estraendo i documenti dalla valigetta, lei si recava in
cucina a prendere due bicchieri, porgendomene uno sorridendo.
Poi la sentii che mi parlava: "Bene, stai ritornando" ed aperti gli occhi la vidi davvero seduta davanti a me:
si era cambiata indossando un abito ancora più succinto del precedente e degli alti sandali senza calze che non la rendevano certo meno eccitante.
"Adesso è il tuo turno per fare domande, se vuoi" mi disse.
"Perché sono qui?" chiesi.
"Perché ti ho scelto per un esperimento" rispose.
"Un esperimento?" ripetei allarmato dalla parola e dal suo sguardo curioso.
Aldina si alzò mettendosi a camminare per la stanza: io la seguivo, fin dove potevo, con lo sguardo ed ascoltavo, fuori dal mio campo visivo, il rumore ritmato dei suoi tacchi. "Sì - incominciò a spiegare con calma - un esperimento sul controllo del cervello: mai sentito parlare di feticismo? (o qualcosa del genere), un’amica mi ha spiegato che può essere provocato ed io lo sto radicando in te come una droga irresistibile, attraverso l'ipnosi ed il riflesso condizionato".
"Il riflesso condizionato?" nuovamente ripetei.
"Già, non so e non mi interessa sapere come esattamente funzioni tutta questa storia scientifica ... l'inventore è un russo, un certo Paolov o Pavlov che fece qualcosa ai suoi cani, e tu stai per diventare il mio cagnolino ubbidiente; altre persone hanno già fatto questo esperimento ottenendo il controllo di chi volevano ed io ho
scelto te perché mi sarebbe sempre piaciuto collezionare un avvocato: sei giovane, brillante e ‘quadrato’: sarà divertente vedere cosa posso fare di te!".
Adesso avevo veramente paura: non si trattava di una sciocca follia, ma di un esperimento condotto su basi scientifiche.
Non mi ero mai sentito così vulnerabile ed impotente in vita mia.
"Ti interesserà sapere - disse Aldina - che una telecamera posta dietro quello specchio sta registrando ogni fase dell'esperimento".
Guardai lo specchio con imbarazzato timore, ma vidi solo la mia immagine riflessa.
"Al termine del trattamento - proseguì - il filmato mostrerà come tu sarai gradualmente diventato completamente schiavo della bellezza della tua padroncina, e guidato in ogni tuo pensiero ed azione dall'irresistibile desiderio sessuale che ti sto inculcando: il tuo cervello sarà come cera plasmata a mio piacimento dalle dita dei miei
piedini".
"Sciocchezze" risposi, mascherando con incerta spavalderia il vero e proprio terrore che mi aveva assalito, ma la sua risposta, seppure non esplicita, fu ancora più efficace: camminò infatti verso di me e sussurrò "Apri la bocca e preparati a succhiarmi le dita".
Io obbedii senza indugio ed ella, sorridendo trionfante, si
sedette appresso a me e si sfilò un sandalo, alzando il piedino ricurvo fino a sfiorare le mie labbra con le dita: io, incurante della telecamera e di tutto il mondo, cominciai a baciargliele con passione.
Poi ella sfiorando con l'altro piede il mio pene eretto, disse "Ora sei pronto" ed, accavallate le gambe, aggiunse "Adesso voglio che ti concentri totalmente sul mio irresistibile piedino": io lo guardai
intensamente mentre Aldina lo dondolava davanti ai miei occhi con un grazioso movimento, lento e regolare, in alto ed in basso.
"Rilassati completamente" lei mi disse. Capii che mi stava ipnotizzando e mi sentivo sempre più costretto a fare del suo piede il centro del mondo, mentre il mio sguardo era fisso sulle seducenti piccole unghie dipinte.
Un subitaneo moto di cosciente timore mi fece distogliere gli occhi ma ella, senza interrompersi per dire una parola, premette un bottone su di un piccolo telecomando: dal collare che indossavo si irradiò nel mio corpo una violenta scarica elettrica che mi fece gridare dal dolore.
"Ti ho detto di pensare solo al mio piede - ella disse – ed ora sai che ti succede quando disubbidisci”: io ritornai a contemplare con intensità il bel piedino dondolante, mentre la voce di Aldina diventava un sussurro di sirena carezzevole ed incomprensibile. Sprofondai così in uno stato sempre più assorto e svanito,
svanitasi insieme la mia coscienza nel suo sinuoso movimento, nella grazia delle desiderabili dita profumate, nei lampi di colore delle unghie che mi passavano ritmicamente davanti; giunsi infine a completamente assopirmi, non prima di avere nuovamente rilasciato il mio seme.

Alcuni rumori mi disturbavano ma io non volevo svegliarmi, per non dover abbandonare il meraviglioso sogno in cui vedevo, come la diva di un film, Aldina camminare sugli eleganti sandali sollevando un poco,
ad ogni passo, il piede dalla suola, e permettendomi di catturare con avido sguardo le delizie della pianta delicatamente ricurva.
Poi la immaginavo sedersi dinnanzi a me e muovere le seducenti dita dipinte, che magneticamente mi attiravano a rendere omaggio alla loro divinità.
Nel sogno rivivevo anche sessioni realmente accadute durante la trascorsa cattività: in una di esse mi ero ritrovato, svegliandomi, nudo ed immobilizzato in una vasca da bagno.
Aldina era in piedi al bordo della vasca, nuda anch'essa e bella da togliere il respiro: io, nell'ormai abituale semi-incoscienza dovuta alle sostanze continuamente somministratemi, ero perso nella contemplazione del suo seno scoperto e rotondo e della sua affascinante vulva.
Ella aprì il rubinetto rilasciando uno scroscio continuo d'acqua tiepida che mi carezzava lo scroto, entrò poi nella vasca e, voltatemi le spalle, calò sul mio volto l'ano roseo ed olezzante, ordinandomi di rendergli omaggio.
Io esitai ed Aldina, voltatasi, mi colpì tre o quattro volte in viso: quando riprese la posizione io mi mostrai ubbidiente ed esplorai con la lingua ogni minuscola e recondita piega del suo pozzo scuro, in cui la mia mente, non meno della mia lingua, sprofondava vorticosamente. Poi ella si girò e si fece baciare la vagina, strofinandomi sul volto una vischiosa scia e facendomi succhiare i suoi copiosi umori.
Quando si alzò io la fissavo con estatica reverenza ed incontenibile eccitazione; poi Aldina si sedette sul bordo della vasca e, stendendo il bel piedino, mi comandò di aprire la bocca, ove infilò le
deliziose dita: sentivo ancora il suo dolce comando: "Succhia schiavetto".
Anche in quell'occasione ricordavo di avere avuto un devastante orgasmo che mi aveva completamente fatto perdere ogni controllo, di modo che avrei continuato a succhiare con demente passione se ella non avesse ad un certo punto ritirato il piedino, sorridendomi e subito dopo rimandandomi nell'incoscienza con una nuova iniezione.
Rammentavo anche altre sessioni, svoltesi in modi ed ambienti diversi: ogni volta però io dovevo ubbidire ad Aldina per non incorrere nella sua punizione, ed ogni volta ella mi gratificava, al termine di ogni incontro, provocandomi uno spasmodico orgasmo mentre io le baciavo i piedi e le parti intime.
Poi ella mi rimetteva a dormire iniettandomi qualche sostanza o, sempre più spesso, semplicemente ordinandomi di fissare il suo piedino dondolante.
Il sogno mi faceva sentire accaldato ed eccitato ma, continuando i rumori, io cominciai a riprendere coscienza.
Il subitaneo pensiero di ciò che Aldina stava facendo al mio cervello affrettò il risveglio della mia mente, ancora occupata dalle immagini ricorrenti, ma ogni cosa mi sembrava confusa e distorta, probabilmente perché ero continuamente mantenuto sotto l'effetto di droga.
Non aprii gli occhi per capire quale fosse la causa dei rumori e dei movimenti che avvertivo perché volevo pensare: non sapevo da quanto tempo Aldina mi tenesse in suo potere, ma dovevo fare qualcosa per
riprendermi la mia vita.
Non potevo permettere che ella giocasse a piacimento con il mio cervello ed inoltre mi rendevo conto con sgomento che, nonostante (o forse proprio a causa di) tutto quello che mi era stato fatto, mi sentivo sempre più attratto dalla mia rapitrice: dovevo fuggire prima che fosse troppo tardi.
Ad un certo punto mi accorsi che ogni movimento intorno a me era cessato, e ne approfittai per riaprire con cautela gli occhi: nonostante l'oscurità mi resi conto di trovarmi nel salotto dell'appartamento ove tutto era iniziato, non ero legato ed avevo stranamente indosso tutti i miei vestiti.
Quando verificai che intorno a me non si scorgeva né si udiva anima viva, il mio primo pensiero fu che Aldina fosse uscita, mal calcolando i miei tempi di risveglio: dovevo approfittare dell'occasione e fuggire.
Mi alzai con circospezione e lentamente mi affacciai all'anticamera, semioscura anch'essa: neanche dalle altre stanze provenivano rumori e le chiavi della porta d'ingresso erano appese allo stipite: ero libero!
Mentre però stavo per slanciarmi verso la porta, trasalii nell'udire una sommessa voce alle mie spalle: "Per favore, guardami un'ultima volta prima di andartene"; nonostante il mio istinto mi suggerisse di fuggire, per qualche ragione mi voltai e la guardai, sentendomi mancare: ella sedeva in una poltrona nell'angolo più oscuro del salotto, sicché era rimasta invisibile prima di accendere la lampada a stelo che si trovava al suo fianco.
Aldina indossava un abito scuro, lungo fino a terra, dai cui profondi spacchi si intravedevano le gambe nude e pallide.
"Per favore, prima di andartene vieni da me per un ultimo saluto" mi disse quasi umilmente.
Io pensai che stavolta non sarebbe successo nulla: non ero più legato ed ero troppo vicino alla libertà perché ella mi potesse fermare, così mi avvicinai a lei.
Ella si alzò ed io non potei fare a meno di pensare che era una regina, però volevo e potevo resisterle, sicché non abbassai lo sguardo e, continuando a fissarla negli occhi, le dissi: "Il tuo piccolo esperimento è fallito".
"Io non penso – rispose, riacquistando il sorriso sornione che ben conoscevo - infatti non te ne andrai".
"Ah! E chi mi tratterrà?" ribattei.
"Il mio volere, che ora è diventato il tuo" disse Aldina.
"Senti, Aldina, guarda che il giochetto è finito – replicai, con reciproco scherno, mentre mi voltavo per andarmene - la partita l'ho vinta io ed ora piantiamola una buona volta con queste scemenze".
"Un attimo" ella chiamò in un sussurro.
"Che c'è ancora?" risposi spazientito.
"Guardami i piedi".
Per qualche ragione lo feci, abbassando lo sguardo ed mmobilizzandomi, incapace di respirare: dall'orlo del nero abito di Aldina spuntavano un paio di sandali dorati, che apparivano come un contorno di stelle
alle dita delicatamente rotonde che si affacciavano a mostrare le unghie laccate scure, mentre un sottile ornamento anch'esso d'oro incatenava lo sguardo ad una delle caviglie ben tornite.
Io ero paralizzato ed attratto come una falena che, pur sapendo di morire, non può fare a meno di slanciarsi nella luce.
A quel punto la porta dell'anticamera si aprì ed entrò un'altra donna, giovane e graziosa, che io conoscevo essere amica di Aldina: Graziana si pose a sedere sul divano e, come se fosse ad uno spettacolo, applaudì la scena ridendo.
Intuii allora che non vi era stato alcun errore e che tutto era stato programmato fin dal principio.
Aldina, con un sorriso, mi disse infatti: "Come vedi tu non hai nessuna intenzione di andartene, ma vuoi restare ed obbedire ciecamente ad ogni capriccio della tua padroncina, che ora ti controlla mente, anima e corpo". Io tacqui sconfitto.
"Ora - ella disse, riacquistando tutta la sua autorità – mi sa che ti macchierai i pantaloni".
Io rimasi immobile ed attonito, ancora aggrappandomi al pensiero di poterle resistere, ma quando ella batté due volte a terra la punta del sandaletto, sentii il liquido caldo e vischioso scendermi lungo le gambe.
L'amica di nuovo applaudì ridendo, mentre su l’indumento appariva un'inequivocabile macchia scura.
"Togliti i vestiti - comandò Aldina - asciugati con la salvietta ed indossa questi altri abiti".
Io mi tolsi la giacca, la cravatta, la camicia, i pantaloni e tutto il resto rimanendo, nudo ed umiliato, a ripulirmi davanti alle due donne che scherzavano fra loro nel vedere la mia incontrollabile erezione. Poi, come un muto automa, indossai gli abiti che Aldina mi aveva indicato.
Quindi la mia padroncina, sorridendo, batté il sandaletto un'altra volta ed io, senza aver ricevuto alcun esplicito ordine, mi inginocchiai e mi accinsi ad adorarla.
Prima che invero potessi iniziare a renderle omaggio ella mi fermò e mi disse di leggere la minuscola targhetta d'oro attaccata alla cavigliera: vi era inciso il mio nome e quando Aldina mi domandò se ne sapevo la ragione, con sicurezza risposi che era perché d'ora innanzi sarei stato sempre ai piedi della mia padroncina.
Soddisfatta, mi diede il permesso di baciarle le dita, infilando la lingua in mezzo ad esse, e fra esse e la suola dorata dei sandali.
Poi ella disse: "Basta adesso: come io sono la tua dea e padrona, lo sono anche le mie amiche. Su cuoricino, fai i dovuti omaggi alla mia ospite".
Immediatamente mi prostrai dinnanzi a Graziana che ancora rideva e, con lo sguardo fisso a terra, presentai i palmi delle mani rivolti verso l'alto, supplicandola di accettare la dovuta adorazione.
Ella vi appoggiò i piedini, calzati da eleganti zoccoletti ed io unii dovere e piacere, come meglio ero stato forzatamente istruito.
Ancora dentro di me sentivo l'impulso a ribellarmi alle abiette pratiche cui mi stavo assuefacendo, ma sempre più forte dentro di me era la voce che mi diceva: "Aldina è la tua stupenda dea e padrona. Tu sei irresistibilmente attratto dal suo corpo meraviglioso, ed obbedirla in ogni capriccio è il tuo piacere. Aldina è la tua volontà, la tua intelligenza ed il tuo unico pensiero".
Gradualmente avvertivo che null'altro più importava e che avrei dato ogni cosa che possedevo, anche la vita, per poter godere del privilegio di un fugace contatto dei suoi deliziosi piedini, che io desideravo sopra ogni altra cosa.
Quando Aldina batté nuovamente il sandaletto, io ritornai ad inginocchiarmi davanti a lei ed attesi ordini: la mia padrona, nuovamente sedutasi, scostò lo spacco che fendeva il lungo abito fino alla cintura, rivelandomi la magnificenza della sua vulva, non coperta da altro se non dalla folta peluria pubica.
"Leccami ed adorami" mi ordinò, ed io lavai i suoi umori con lenti e prolungati passaggi sulla sua serica stola e sulla sua profumata profondità.
Quindi aggiunse: "Molto bene. Adesso avrai la tua ricompensa".
Io fremetti di eccitata attesa quando ella puntò l'indice inanellato verso la fibbia del sandaletto. Slacciai quindi quest'ultimo e lo sfilai con adorante delicatezza, portandomi la calzatura al viso per baciarla ed aspirarne la divina fragranza.
Poi ella protese l'alluce ed allargò le dita del piede, agitandole davanti a me ed io, obbedendo ad un impulso preordinato mi posi immobile e supino, estendendo la lingua per riverire le estremità della mia dea, oggetto del mio intenso desiderio.
Aldina giocherellò per qualche tempo facendo passare lentamente e ripetutamente il piedino alto sopra di me mentre io, tenendo il capo al suolo, protendevo la lingua il più possibile per raggiungerlo.
Poi ella finalmente sorrise ed abbassò pesantemente la pianta del piede, premendola sulle mie labbra.
Mi sentivo in estasi e bacia le preziose dita con urgente passione, assaporandole ad una ad una e svuotandomi da ogni pensiero, fino a raggiungere l'ennesimo violento orgasmo.
Poi dopo una breve pausa, durante la quale, semi-incosciente, sentii Aldina e Graziana scherzare e ridere insieme, la mia padrona schioccò le dita ed io immediatamente mi posi in ginocchio, con lo sguardo fisso al suolo e le palme protese.
Contemporaneamente ripresi coscienza di me e mi misi a singhiozzare per l'umiliazione: Graziana di nuovo applaudì ridendo.
Aldina mi chiamò vicino a sé con un cenno del dito ed, abbassatasi sul mio orecchio, mi disse: "Non preoccuparti, adesso tu non sei più niente ed io sono tutto: sarai sempre felice di ubbidirmi": io infatti
sapevo che oramai non potevo se non abbandonarmi completamente a lei.
Quella sera stessa uscii - come avevo lungamente agognato - dall'appartamento di Aldina: ma solo per riaccompagnare Graziana con la mia automobile: giunti dinnanzi a casa sua scesi per aprirle la portiera ed ella, volendo godere di un'ultima perfidia, fece finta di lasciarsi sfuggire di mano le chiavi.
Quando mi chinai a raccoglierle Graziana agitò ridendo le dita dei piedi ed io, conoscendo il segnale, non potei fare a meno di renderle in pubblico l'ennesimo fugace omaggio.
Feci poi una breve sosta a casa mia per cambiarmi nuovamente e tornai a prendere la mia padroncina, accompagnandola a fare spese (ebbi l'onore di sostituire i commessi nel farle provare personalmente ogni
acquisto) ed attendendola in estatica contemplazione mentre, ciarlando con la parrucchiera, si faceva sistemare l'acconciatura.
La sera la condussi, elegantissima e preziosa, a cena in un esclusivo ristorante ove ella approfittò del tavolo appartato riservatoci, per esigere ripetutamente il mio omaggio secondo le modalità che la sua vivace fantasia, stimolata dalla libagione, di volta in volta le suggeriva.
Dopo che l'ebbi riaccompagnata a casa salutandola come mi era stato insegnato, tornai nel mio appartamento ed il mattino dopo mi recai in ufficio: in tarda mattinata sentii squillare il telefono ed, alzato
il ricevitore, non udii parole, ma solo un inconfondibile battito di sandaletto sull'impiantito.
Corsi quindi immediatamente a casa di Aldina, che quel giorno stesso si licenziò dal negozio in cui aveva sinora lavorato come commessa: ella infatti fu assunta dal mio studio.
In realtà Aldina non frequenta l'ufficio e non percepisce un vero stipendio perché possiede, con me, ogni mio
avere (che io comunque mi affrettai - dietro suo gradito comando - ad intestarle). La sua vecchia utilitaria è stata sostituita da una fiammante convertibile ed ella passa nello svago le sue giornate.
Ogni volta che sento al telefono l'irresistibile richiamo io corro immediatamente da lei, perché sono schiavo della sua bellezza e, soprattutto, dei suoi deliziosi piedini.
Talvolta usciamo anche insieme e mi è anche capitato di aiutarla a procurarsi nuovi schiavi: non c'è niente infatti che non farei per Aldina perché i desideri della mia padroncina sono ora l'unica cosa che per me ha importanza’.

Avevo tradotto il racconto in preda ad un impulso subitaneo: lo stesso impulso che mi faceva, a volte, inserire nel corpo di lunghi documenti ufficiali frasi spezzate di delirante feticismo, evidenziando tramite
l'apposito comando parole ricorrenti e sostituendo loro espliciti riferimenti a padroncine vagheggiate nella loro fisica e dominante essenza, quindi cancellandoli prima dell'archiviazione in memoria.
Avevo letto e riletto la traduzione, spostandone e modificandone il testo per adattarlo al modello di reale riferimento, senza tuttavia renderlo troppo esplicito: un incontro occasionale aveva determinato il soggetto ed aveva invaso la mia mente, sottraendomi ogni facoltà di produttivo pensiero, giacchè la stessa era completamente assorta per rievocare e fissare nello scritto ogni dettaglio della fugace impressione.
Avevo poi, nell’attimo di un impulso più urgente, premuto il tasto d'invio della posta elettronica, sorvegliando con angosciata eccitazione il rapido ed irreversibile procedimento che per la prima volta estrinsecava le sinora gelosamente celate intime pulsioni.
Nelle ripetute quotidiane connessioni dei giorni successivi avevo digitato l'indirizzo del sito cui avevo indirizzato l’invio con sempre rinnovata trepidazione, contraddittoriamente sospirando insieme di attesa e di sollievo quando esso si apriva senza mostrare traccia del mio racconto, trasalendo poi quando quest'ultimo era apparso nell'apposita pagina, avidamente leggendo ciò che sapevo a memoria quando infine il titolo era immediatamente comparso - con l'evidenza riservata agli ultimi arrivi - dinanzi agli occhi di chiunque si
connettesse.
Avevo mille volte valutato la possibilità che - partendo dagli indizi biografici - fosse possibile risalire ad entrambi i reali soggetti del racconto e, pur avendola esclusa con confortante raziocinio, avevo per qualche giorno temuto un nuovo incontro, più o meno casuale, la percezione del quale sarebbe stata in me alterata da una conoscenza la cui condivisione rimaneva per me un angosciante dubbio.
Poi altri racconti avevano occupato la prima pagina del sito, spodestando l'evidenza grafica del mio parto letterario: avevo allora ripreso il mio lavoro con certa riacquistata serenità, biasimando la mia follia e quasi dimenticando l'incarnato soggetto delle mie fantasie.
Quella mattina mi ero recato presto in ufficio per più efficacemente combattere la quotidiana lotta contro le numerose pratiche che, con sempre più ingombrante fisicità, si erano negli ultimi tempi impossessate della mia scrivania drasticamente riducendo lo spazio libero a mia disposizione.
La proficua freneticità delle prime ore aveva avviato positivamente la giornata, sicché stavo - nel tardo mattino - considerando la possibilità di allentare un poco il ritmo e concedermi una pausa per il pranzo più distesa, sì da riprendere in modo rilassato il lavoro pomeridiano.
Fu in quell'istante che la segretaria mi chiamò sull'interfono: “C'è qui la signora Aldina che desidera vederla".

Sobbalzai in preda a mille pensieri: poteva essere una coincidenza? - pensavo e speravo - tuttavia perché presentarsi col nome di battesimo se si fosse trattato di una pratica d'ufficio?
La concatenazione temporale era poi decisamente a mio sfavore: non avevo mai avuto Aldina come cliente, poteva essere che - proprio pochi giorni dopo che era stato pubblicato il mio racconto - ella si rivolgesse per la prima volta al mio studio per chiedere una prestazione professionale, proprio come nel racconto stesso
avevo vagheggiato?
L'imbarazzante riflessione dovette portarmi via alcuni secondi, infatti udii nuovamente la voce della segretaria che mi chiamava in modo interrogativo: "Avvocato ...".
L'intervallo trascorso era ormai troppo lungo anche per una salvifica negazione.
Aldina - proprio per sfruttare la sorpresa, pensai - non aveva preso alcun appuntamento: avrei ben potuto dirmi impegnato, ma in questo
caso avrei dovuto rispondere con prontezza, poiché se ella sapeva (questo era il mio angosciante cruccio!) avrebbe sicuramente saputo interpretare l'esitazione e, prima o poi, sarebbe stata in vantaggio
nell'affrontarmi.
Cedetti all'inevitabile (o forse volli cedere!) e dissi di far passare la signora, mentalmente seguendo i suoi passi fino alla porta del mio ufficio mentre convulsamente pensavo a ciò che sarebbe potuto accadere e a come comportarmi.
Il primo dei miei propositi crollò tuttavia mentre ancora la porta si stava aprendo: il mio sguardo si posò infatti immediatamente sul piedino rotondo, troppo tardi salendo al viso perché la mia
visitatrice non se n'accorgesse.
L'abbigliamento di Aldina - del tutto simile a quello da me già descritto nel racconto - ed il sorriso di trionfo con cui ella entrò nell'ufficio, senza quasi salutarmi ed accomodandosi in poltrona senza attendere invito, fecero crollare ogni sperata coincidenza, ed io capii che ella avrebbe giocato con me come il gatto gioca con il topo in trappola.
Mi accinsi tuttavia a sostenere la parte e feci per accomodarmi a mia volta dietro il fragile rifugio della scrivania.
"Non lì, per favore: mi sento in soggezione a dover parlare con qualcuno seduto così in alto.
Ti dispiace metterti su quest'altra poltrona?" disse, accompagnando le parole con un angelico sorriso che ne nascondeva la perfidia e con un tono di simulata umiltà che meglio evidenziava la facoltà di disporre in casa altrui.
Mentre poi mi stavo sedendo ove indicatomi, ella nuovamente interruppe la mia azione "Ti dispiace - ancora mi chiese, simili il tono e le parole - chiedere che non ci disturbino mentre parliamo?".
E mentre nuovamente mi alzavo per eseguire le sue istruzioni "So che puoi farlo - ella aggiunse - perché qui tutti ti ubbidiscono!".
Risposi con un imbarazzato sorriso alla volutamente malcelata ironia mentre chiedevo all'interfono che non mi passassero nessuna chiamata.
"Nemmeno Londra?" rammentò con efficiente premura la segretaria.
"Ho detto nessuna! - sbottai, lasciando che la mia estrema tensione si sfogasse sull'innocente - Devo sempre ripetere le cose due volte?".
"Come sei autoritario! Non mi piacerebbe lavorare per te, ma ... dimmi cuoricino - riprese Aldina, accavallando le gambe ed incominciando a dondolare il piede a pochissima distanza da dove ero seduto - chi
sarebbe mai questa Graziana?".
Il mio sobbalzo ed il subitaneo rossore furono accresciuti dalla sorpresa per il così rapido disvelarsi delle sue vere intenzioni, e provocarono l'argentina risata della mia tormentatrice, di fronte alla quale la mia tardiva finzione d'ignoranza risuonò assai patetica: "Chi?".
"Hai capito benissimo cuoricino: Graziana, l'amica che tu accompagni a casa per poi renderle in pubblico l'ennesimo fugace omaggio alle dita dei piedi" ella esclamò continuando a ridere ed agitando le proprie che sbucavano dal sandalo sottile, accentuatane la seduzione dalla volgarità della risata e del gesto.
"Non mi chiamo 'cuoricino' e non so di cosa tu stia parlando" dissi, finalmente mostrando un tentativo di riprendere il controllo, più efficace se avessi saputo in quel momento fissare gli occhi di Aldina, anziché le sue estremità.
"Invece lo sai benissimo" sbottò Aldina, fissandomi con un lampo di stizza nei piccoli occhi scuri mentre da una tasca del minuscolo abito estraeva un foglio da cui cominciò a leggere: "Aldina è la tua stupenda dea e padrona.
Tu sei irresistibilmente attratto dal suo corpo meraviglioso, ed obbedirla in ogni capriccio è il tuo piacere. Aldina è la tua volontà, la tua intelligenza ed il tuo unico pensiero".
"Devo continuare a leggere? ... No, direi di no" disse poi, appoggiando la caviglia sulla mia gamba e sfiorando con la suola la mia appariscente eccitazione.
"Scrivi in modo tanto prezioso ma ragioni come tutti gli uomini .. con questo! - aggiunse premendo leggermente il sandalo - e come vedi non ho bisogno di droghe, iniezioni o esperimenti strani per fartelo
capire".
Io portai la mano sopra il suo piedino per rimuoverlo all'imbarazzante posizione, ma non appena l'ebbi afferrato Aldina, svelta, appoggiò su di me anche l'altra gamba ed incominciò a muovere le dita
solleticandomi il palmo.
"Massaggiameli tutti e due, cuoricino, so che ti piace e piace anche a me, alla tua padroncina" ella disse, accompagnando l'ordine con un riacquistato sorriso, divenuto trionfale dopoché, appoggiata la mano sinistra sull'altro piedino, cominciai a far scorrere le dita intorno ad entrambe le caviglie nude, scendendo poi ad infilarle sotto la pianta ricurva e strofinandole in mezzo alle sue dita dipinte.
Mi bloccai nell'udire lo scatto di una piccola macchina fotografica, ma Aldina prevenne con voce ferma ogni mia reazione dicendo: "Stai tranquillo, non voglio farti del male: oramai è troppo tardi perché tu voglia tornare indietro e se provi a togliermi la macchina mi metto ad urlare. Non vorrai che tutti sappiano che cosa scrivi mentre tutti ti credono impegnato nelle pratiche d'ufficio! Slacciami i sandali".
La mia protesta si risolse in un ridicolo mormorio mentre mi accingevo a liberare la fibbietta dorata.
Non appena la calzatura cadde a terra con un tonfo ovattato, Aldina sollevò il piede e me lo premette con forza sulle labbra: "Non voglio sentire mugugni - ella disse - d'ora in poi queste labbra diranno solo ciò che la tua padroncina ti comanda di dire e questa testolina - aggiunse, alzando il piede fino ad appoggiarmi la suola sulla fronte - penserà solo ciò che la tua padroncina ti comanda di pensare. Hai capito?"
"Sì" risposi sconfitto.
"Sì cosa?" ella ribadì severa, aumentando la pressione delle sue suole nude sulla mia fronte e sul mio addome.
"Sì padroncina" bisbigliai, svuotandomi definitivamente.
"Bravo cuoricino - ella disse sorridendo materna - vedrai che staremo bene. Di che colore ti piacciono le unghie? ... rosse? ... o magari scure?".
"Rosse sono bellissime ... anche scure" risposi ormai in sua completa balia.
"Allora stasera, prima di uscire a cena, me le dipingerò come piace a te. Anzi, magari le faccio dipingere a te, sei contento?".
"Ma stasera .." accennai, subito però bloccandomi mentre la sentivo irrigidirsi ed incrociavo la sua occhiata cupa.
Abbassai subito gli occhi e dissi: "Grazie padroncina, farò come tu mi comandi".
"Bene, sei proprio un bravo schiavetto ubbidiente, adesso togliti i vestiti e mettiti in ginocchio che sono stufa di tenere alzate le gambe e dobbiamo fare ancora qualche fotografia".
Passammo il successivo quarto d'ora a riempire la pellicola, mentre Aldina scattava e rideva delle pose umilianti di volta in volta escogitate; quando infine il rullino fu completo ella si fece rimettere i sandali.
"Ah, quasi dimenticavo: fissa il mio dito" ella disse alzando cerimoniosamente l'indice destro e facendolo scendere lentamente - assieme al mio sguardo - fino all'orlo del succinto vestito estivo, la cui minigonna si era già ritirata mentre Aldina allargava le cosce. Ella sollevò poi con la mano sinistra l'orlo dell'abitino.
"C'era anche questa nel tuo sogno, non è vero? E adesso che sei davvero il mio schiavetto non ti puoi più accontentare del sogno!" riprese a dire mentre mostrava l'umidore che luccicava fra il folto pelo pubico e che aveva già macchiato il tessuto della poltrona su cui ella sedeva, priva di biancheria intima.
Con la stessa cerimoniosa lentezza avvicinò, senza dare tregua al mio sguardo estatico, il dito alzato all'intima fessura, inclinandolo poi e facendolo penetrare lentamente nella vulva mentre socchiudeva gli occhi e gemeva di piacere.
Con altrettanta lentezza lo estrasse e lo puntò, bagnato, nella mia direzione.
"Voglio che ti masturbi mentre lo succhi" ella comandò, ed io ubbidii prontamente, dopo poco rilasciando un vigoroso fiotto caldo e biancastro che andò a ricoprire i piedini di Aldina.
Alzai gli occhi preoccupato mentre continuavo a succhiare, ma ella mi sorrise bonaria: "Non preoccuparti - mi disse - è il tuo pegno d'amore: fra poco usciremo insieme e non te li farò ripulire, così tutti sapranno quanto mi sei devoto".
Mi fece quindi alzare e rivestire ed uscimmo insieme dall'ufficio; mentre, passando, incaricavo la sgomenta segretaria di annullare ogni impegno perché non sarei stato di ritorno nel pomeriggio, Aldina alle mie spalle ridacchiava rimirandosi i piedini rotondi ricoperti del mio pegno d'amore.

Mi ha sempre destato ammirata meraviglia l’innata capacità delle donne, dalla più intelligente alla più stupida, di esattamente ed istantaneamente sentire la misura del proprio ascendente su chi le circonda, sicché é loro permesso, quando non innamorate, alternare nella mutevole trama della seduzione offerta e ritrosia, controllo e rilascio, sì da rendere sempre più salda la presa senza spezzare l’elastica ma inevadibile loro ragnatela.
Aldina aveva ottenuto di assoggettarmi a lei, umiliandomi e facendomi confessare la sua elezione quale oggetto delle mie fantasie erotiche; non importa se tale oggetto era del tutto occasionale: era a lei che mi ero riferito nel divulgare le mie pulsioni ed era lei – tuttora mi chiedevo come! – che aveva inopinatamente raccolto il mio sfogo traducendolo in realtà, era dietro a lei, infine, che ora camminavo dopoché, usciti dall’ufficio, ella mi aveva intimato di seguirla senza distogliere lo sguardo dai suoi rosei talloni, dalle caviglie, dai polpacci, dalle rotondità ricolme che spingevano verso l’alto il succinto orlo del minuscolo abito da lei indossato.
Avvertivo, senza osare trasgredire il limite del magnifico orizzonte impostomi, la curiosità destata nei passanti - fra cui immaginavo miei conoscenti – dal lussurioso incedere della mia padroncina, dal
suo provocante abbigliamento, dal mio rimorchiato rapimento che mi volevo illudere non evidente, o almeno confondibile con l’assorbimento in più elevati e lontani pensieri.
Ero peraltro affascinato dalla sottile perfidia dell’incolta Aldina la quale dimostrava una capacità di dominazione psicologica che nemmeno dieci corsi di laurea avrebbero potuto instillarle: ella infatti sapeva che un più esplicito sfoggio di sottomissione – oltre ad
essere meno indelebilmente efficace – avrebbe potuto darmi la forza di ribellarmi, mentre ora camminavo ubbidiente, confuso, eccitato ed adorante ad un passo dietro di lei, assorto nella cadenza del suo moto, mentre sentivo le sue flessuose suole regolarmente alternarsi nel premere dentro di me, non meno di quanto lo facessero sul selciato dell’assolata via del centro che stavamo percorrendo, attraverso i passanti che approfittavano della pausa meridiana.
Di tanto in tanto Aldina si voltava, rivolgendomi un malizioso sorriso che io tuttavia non potevo vedere; ad un certo punto poi ella si fermò, sedendosi al tavolino esterno di un bar e comandandomi di fare altrettanto "Ora puoi guardarmi in faccia", mi disse, incatenando tuttavia il mio sguardo ancora per qualche istante con lo spettacolo del suo piedino, non ripulito, che dondolava dalla gamba accavallata: poi ella estrasse dalla borsa una salviettina imbevuta che mi porse, alternando la posizione mentre io accudivo, senza che me lo
dovesse dire, all’una e poi all’altra sua estremità.
"Ho dei progetti che ti riguardano – ella mi disse – Vai a chiamare qualcuno, che ho fame, poi ti dirò cosa voglio fare di te".
Quando tornai accompagnato dal cameriere, Aldina fece l’ordinazione per entrambi ("Per lui solo un bicchiere d’acqua, se no ingrassa e non lo voglio più" sorrise complice all’inserviente) poi incominciò a
parlarmi.
"Quando qualche tempo fa un’amica mi ha mostrato per scherzo il racconto, nessuna di noi due credeva che mi riguardasse: in seguito però, riflettendoci sopra, abbiamo capito che le coincidenze erano troppe, ed io ho incominciato a fantasticare su chi potesse averlo scritto. Ad un certo punto mi venne in mente lo sguardo che mi avevi dato quando ci eravamo recentemente incrociati per la strada ed ancora ricordai di averti dopo poco rivisto un paio di volte nel mio negozio, che non avevi mai frequentato: pensavo fosse impossibile che tu
avessi perso la testa per me al punto di scrivere quelle cose, mi sentii tuttavia sempre più eccitata al pensiero di poter fare di un uomo come te il mio docile schiavetto, pronto a fare qualsiasi cosa, anche a buttare all’aria tutta la sua vita, per obbedire ad ogni mio capriccio. Per qualche notte ho dormito pochissimo, toccandomi
però a lungo nel sogno di essere la tua regina e di appoggiare i miei piedini sul tuo cervello; poi, la settimana scorsa, la mia amica è corsa da me dicendomi che era stata pubblicata la prosecuzione del racconto, in cui tutto quadrava con la mie incredibili ipotesi.
Non stavo più nella pelle per l’eccitazione sicché stamattina ho deciso di fare una follia e togliermi il pensiero: ho indossato l’abito che ti piace tanto e sono venuta nel tuo ufficio, ancora incredula e già preparata ad inventare una scusa: quando però sono entrata ed ho visto i tuoi occhi abbassarsi mi sono bagnata tutta
dall’eccitazione di sentirmi veramente la tua padrona e di poter fare di te quello che voglio. Perché io posso fare di te ciò che voglio, vero che è così?".
"Si" risposi fiocamente.
"Si cosa?" ribattè.
"Si padroncina" aggiunsi con il medesimo tono di voce.
"Non ti ho sentito" ella infierì.
"Si padroncina" ripetei con maggiore forza, rapidamente guardandomi intorno.
"Bravo cuoricino, si vede che hai studiato tanto: impari bene e velocemente".
Io arrossii compiaciuto suscitando la sua sguaiata ilarità, accresciuta dall’avermi sorpreso inconsciamente
accarezzare il piedino che aveva appoggiato al bordo della mia sedia, mentre frugavo in mezzo alle sue dita portandomi poi alla bocca quanto vi raccoglievo.
La mortificante constatazione dell’abiezione in cui ero sprofondato risvegliò in un ultimo sussulto il mio desiderio di sottrarmi a quanto, fuori da ogni mio razionale controllo, stava accadendo per questo provai, persa ormai la dignità, ad implorare la mia musa di rendermi la libertà: "Ti prego Aldina – le dissi – sono un
pazzo e mi scuso di averti offesa col mio impuro pensiero, ma dimentichiamo tutto questo e restiamo amici: come sai io sono già impegnato e non sarebbe giusto offendere un’altra persona".
Mentre ancora parlavo mi rendevo tuttavia conto - anche se ella non avesse continuato a ridere più forte di prima - della tragicomica incongruenza delle mie parole, non ebbi quindi nessuna risposta (che comunque non avrei avuto la forza di dare) alle sue successive parole: "Hai mai detto alla persona che non vuoi offendere quanto trovi gustoso il sudiciume delle mie dita? Tu adesso sei il mio schiavetto, e la scelta l’hai fatta tu stesso quando hai incominciato a sognarmi. Sarò io d’ora in poi a decidere cosa fare di te: per adesso e ad incominciare da stasera incomincerai a frequentare casa mia come un appassionato spasimante".
Poi finì l’aperitivo contenuto nel proprio bicchiere, guardò l’orologio e si alzò aggiungendo "Adesso devo andare! tu stai qui ancora cinque minuti e paga il conto. Per quanto riguarda stasera questo è il programma: vieni a prendermi alle nove e trenta, dopo cena, e porta un bel mazzo di rose rosse che piacciono tanto a mia mamma".
Prima di andarsene voltò le spalle agli altri avventori, prese un’oliva dalla piccola ciotola che il cameriere aveva lasciato sul tavolino, e dopo essersela infilata sotto il vestito sorridendo la offrì al mio palato: "Questa è la droga più potente che ci sia – disse – e tu oramai sei un piccolo tossico che dipende esclusivamente da
me; ubbidiscimi in tutto ed avrai ogni giorno la tua dose". Chiusi gli occhi ed assaporai il suo presente, chiedendomi con sorpresa come potesse la mia nuova padroncina essere costantemente ricca di profumati umori.

Rimasi seduto più di cinque minuti al tavolino, nel tentativo di raccogliere i miei pensieri, poi andai a pagare il conto e mi misi a vagare per le vie del centro giacché non avevo il coraggio di tornare in ufficio, dopo avere oltretutto annullato ogni appuntamento.
Era venerdì, ed io mi cullavo nell’idea di poter disporre di un
paio di giorni per riposare e riflettere in merito alle implicazioni della nuova situazione che si era venuta creando con Aldina.
Già … Aldina: il pensiero della mia assurda sottomissione mi rimise in uno stato di agitazione in cui mi dibattei a lungo dopoché, presa l’automobile e tornato a casa, mi ritrovai disteso nella penombra della camera da letto per ripetutamente pensare all’umiliante incontro di poche ore prima. La mia vita – dicevo fra me – poteva dirsi agiata ed appagante, ero giovane, educato, di bell’aspetto e con una rispettata professione, coltivavo infine buone relazioni sociali e – non ultimo – un protratto e sereno legame, amorevolmente ricambiato, con una giovane collega che nulla certamente aveva da invidiare, per bellezza, eleganza, censo e cultura, alla mia nuova padroncina, alla cui negativa considerazione corrispondeva tuttavia una crescente ed
inspiegabile eccitazione.
La poco raffinata esibizione di quel corpo piccolo e formoso, quello sguardo ove era la socchiusa malizia a catturare, anziché la dilatata intelligenza, quell’aria di imperiosa consapevolezza di sé con cui, fin dal primo fugace incontro per la strada, ella mi aveva distrattamente salutato con l’aria
arrogante di chi incontra un inferiore, la sua espressione di trionfo quando aveva scoperto la mia debolezza: tutto questo faceva l’immenso potere di Aldina, trasformando l’oscura commessa di un grande magazzino in una fascinosa imperatrice il cui capriccio era divenuto la mia unica legge.
La rivedevo nelle immagini delle ultime ore: rivedevo il suo volto ora di musa capricciosa, ora di soddisfatta ammaliatrice, ora di indispettita regina; rivedevo i suoi succinti vestiti, il dito umido proteso verso di me, il sandalo col piedino imbrattato della mia eccitazione, ed intanto imbrattavo anche le coperte su cui ero
disteso.
Dopo essermi sfogato ripulii affrettatamente l’alcova prima di correre a prendere il telefono che squillava: risposi così con distratta irritazione a Paola, che era l’ultima persona con cui avrei voluto in quel momento parlare; mi sentivo – era vero – in colpa mentre farfugliavo qualche improbabile scusa per non adempiere alla promessa di portarla, quella sera, ad una rappresentazione teatrale cui ella da lungo tempo voleva assistere, tuttavia non potevo nel contempo soffocare l’iniquo rancore nei suoi confronti per il momento
sbagliato (ma capivo che difficilmente ci sarebbero ancora stati ‘momenti giusti’!) della telefonata: ella era una ragazza sensibile ed intelligente sicché capiva quando qualcosa non andava e non era il momento di discutere, il suo disappunto mi avrebbe tuttavia fatto meno male del tono dolente e sorpreso della sua voce.
Avevo ad ogni modo altro (o – meglio – altra!) a cui pensare e chiusi la comunicazione con sbrigativa cortesia e con l’incerto impegno di risentirci nei prossimi giorni (escludendo così anche l’imminente fine
settimana che eravamo soliti trascorrere insieme).
Mi ricoricai quindi ancora per qualche tempo a cullarmi nel pensiero che nulla di irreversibile era accaduto, che avrei potuto tornare sui miei passi richiamando Paola e trascorrendo con lei la sera a teatro invece di recarmi a casa di Aldina, che comunque le cose avrebbero potuto in qualche imprevedibile modo sistemarsi, magari con dei soldi, con qualche minaccia, forse chiedendo perdono, forse cercando l’aiuto di qualcuno: mentre tuttavia tali confuse elucubrazioni ancora si accavallavano nella mia mente, si era fatto tardi e già mi stavo lavando, rivestendo, stavo uscendo di casa, entrando in un negozio di fiori, poi in uno di dolci, stavo infine percorrendo – con mezz’ora di anticipo e senza aver cenato – la strada principale del paese su cui si affacciava l’abitazione dei genitori di Aldina.
Anche in questo vidi la perfidia della mia capricciosa padroncina: ella aveva infatti un proprio appartamento (quello del racconto!) ma aveva voluto che io la incontrassi qui, ove non solo i suoi genitori, ma tutto il locale andirivieni della serata estiva nel piccolo borgo
avrebbe notato e commentato la sua ultima conquista.
Alle ore 21,20 parcheggiai l’automobile lucida dinanzi alla casa ove ero già ripassato tre o quattro volte, ogni volta sentendo crescere, giungere all’acme e poi allentarsi la tensione a mano a mano che mi avvicinavo, oltrepassavo e poi mi allontanavo dal noto indirizzo; sedetti ancora un poco al posto guida, avvertendo sguardi pettegoli posarsi su di me, e poi scesi raccogliendo con impaccio le rose e l’ingombrante scatola di cioccolatini che avevo acquistato e dirigendomi verso il campanello che premetti alle ore 21,30 precise,
come mi era stato ordinato.
Venne ad aprirmi una donna in abito da casa e zoccoli, che dietro gli occhiali, la patina e l’appesantimento che il tempo aveva operato, subito riconobbi per la madre di Aldina.
"Buonasera signora – dissi – sono …";
"Lo so chi sei" ella mi interruppe con sgradevole famigliarità di complice, "Aldina mi dice sempre tutto" aggiunse, forse ignara di quanto questa nota mi potesse turbare.
"Vieni a sederti, che si sta preparando".
Seguii dunque la donna in un salotto che si affacciava sulla piccola anticamera ove ero stato ricevuto: di fronte intravidi una cucina ove un uomo minuto, probabilmente il padre di Aldina, stava rigovernando le masserizie usate per la cena.
Mi sedetti ove mi era stato indicato e la madre di Aldina si accomodò di fronte a me, incominciando a intrattenermi con una serie di domande che non si lasciavano scoraggiare dal cortese riserbo che io opponevo
loro: mi ero infatti accorto che la donna voleva completare le informazioni già parzialmente assunte in merito alla mia professione, al mio tenore di vita, etc., completando inoltre il discorso con ripetute lamentele in merito all’attuale impiego di Aldina che, ovviamente, d’ora in poi sarebbe mutato.
Il mio crescente disappunto mi rendeva sempre più distratto e stavo quasi pensando di inventare una scusa per sottrarmi all’incubo quando vidi il compiaciuto sorriso con cui la donna percepì il mio sussulto nell’udire un paio di tacchi leggeri scendere dalle scale; "Sta arrivando" ella disse, godendosi il mio rossore e l’agitazione in cui l’attesa faceva tutt’uno con il desiderio di fuggire.
Quest’ultimo sparì tuttavia completamente appena il mio sguardo si abbassò a contemplare Aldina, soffermatasi sulla porta per dare il massimo effetto al proprio ingresso: anche questa volta fui colpito
dapprima, con quasi fisico impatto, dai piedini tondeggianti con le piccole unghie laccate nere, splendidamente calzati in un paio di sandali dello stesso colore e dal tacco affusolato, che si allacciavano con una sottile stringa che dalla caviglia saliva ad abbracciare il polpaccio; vi era poi una minigonna nera ed un
reggiseno dello stesso colore.
Il velo trasparente di una sottile maglia, nera anch’essa, copriva le spalle scendendo fino all’addome e lasciando tralucere, ad ornamento dell’ombelico, una piccola perla di metallo grigio, del tutto simile a quella che segnava il centro del sottile nastro di nero velluto che cingeva il collo di Aldina.
Altre due piccole perle grigie riverberavano infine appese ai minuscoli lobi tramite lunghi pendenti; Aldina aveva poi rimarcato la sua scura seduzione con il trucco delle labbra sottili e delle ciglia.
L’arrogante padroncina si mise - con sua madre - a ridere allorché, balbettato un saluto, mi alzavo impacciato per porgerle i fiori e lasciavo cadere a terra l’ingombrante scatola di cioccolatini.
Senza poi commentare i miei regali ma fissandomi negli occhi con intensità Aldina mi domandò: "Ti piaccio?".
"Si" risposi in tono sommesso.
"Quanto ti piaccio?" insistette.
"Sei bellissima" risposi, mentre la madre, soddisfatta, non dava segno di volersi allontanare.
"Sai mamma – Aldina infierì – a lui piacciono le unghie dei piedi rosse, stamattina si era perfino offerto di dipingermele lui stesso: per questo voglio sapere bene, prima di uscire, se gli piacciono anche nere".
Poi rivolgendo nuovamente a me il suo tono civettuolo e canzonatorio mi disse, senza curarsi del mio devastante imbarazzo, "Se vuoi che esca con te devi dire subito, alla presenza di mia madre, che ti piacciono i miei piedini con le unghie nere. Guardali!" comandò, mentre agitava le dita.
Completamente incapace di reagire chinai il capo e, fissandoli, risposi che i suoi piedini erano incantevoli, che lei era elegantissima e che le sue piccole unghie nere, con la loro raffinatezza, avevano rapito il mio sguardo non appena ella era entrata nella stanza, per questo la pregavo di voler uscire con me.
"Allora andiamo, schiavetto" ella disse, scambiandosi prima di uscire un ultimo trionfante risolino con la madre.

Se davanti al cameriere che ci aveva servito all’ora di pranzo l’impudente estrinsecazione di dominio poteva essere apparsa una trascurabile battuta, sentire Aldina ribadire la mia servitù di fronte alla madre - che ne aveva gustato l’impeccabile regia - mi colpì con la violenza di un pugno nello stomaco acuendo il mio desiderio di fuggire da quella casa, sicché seguii la mia tormentatrice quasi spingendola col pensiero verso la porta ed affrettandomi poi a precederla per aprirle lo sportello dell’auto, diedi quindi subito potenza al motore col desiderio di allontanarmi al più presto dalla madre che ci salutava con la mano dalla finestra, mentre Aldina la ricambiava rivolgendo cenni di saluto anche ad un paio di signore che passeggiando si godevano, assieme al fresco della sera, un nuovo argomento di conversazione.
Uscii veloce dal paese mentre Aldina, incurante della mia agitazione, sorrideva fra sé del proprio successo e si adagiava comoda nel sedile, facendo salire l’orlo del vestito mentre divaricava leggermente le gambe, allungate ad affondare nel tappetino i sandali di vernice nera. Mentre compiva il malizioso gesto ella ne sbirciava con la coda dell’occhio l’effetto su di me, fu allora che notò il mio indispettito riserbo e, subitamente assunto l’aspetto imbronciato che già conoscevo, mi ordinò secca di fermare l’auto: mi infilai quindi in una piazzola di servizio e rimasi parcheggiato col motore acceso, guardando davanti a me nell’incapacità di affrontare la discussione.
"Spegni il motore e guardami" ella disse fissandomi con i piccoli occhi accesi e le labbra serrate in una sottile linea scura; nessuno passava sicché, ruotata la chiave, scese il silenzio: io mi voltai verso Aldina e flebilmente esposi il mio lamento: "Non dovevi chiamarmi ‘schiavetto’ di fronte a tua madre".
Ella mantenne ancora un istante lo sguardo corrucciato facendomi abbassare gli occhi, fermatisi nell’ombroso varco in cui si affacciava il lussureggiante pelo pubico, cui il succinto abitino costituiva ben
misero presidio; poi improvvisamente scoppiò a ridere ed, afferratomi dietro la nuca, attirò la mia sulla sua bocca, allacciandomi in un lungo bacio sensuale mentre la lingua si impadroniva prepotente di ogni angolo del mio palato.
Mentre ancora durava l’amplesso, Aldina sfilò dalla borsa una piccola pasticca bianca, che mi infilò in bocca, spingendola poi subito a fondo con la lingua fino a farmela inghiottire, dopodiché si staccò
da me e rimase a fissarmi incuriosita.
"Cos’hai fatto?" le chiesi, un po’ allarmato.
"Dovresti saperlo cuoricino – fu la sua risposta – e comunque fra pochissimo te ne accorgerai: mi hanno detto che questa roba ha effetto immediato … Fermo, stattene lì buono e ascoltami – aggiunse trattenendomi senza fatica mentre cercavo di fare disperatamente non so cosa, dibattendomi scoordinatamente per evitare il temuto destino, mentre già l’intorpidimento si stava impadronendo di me – come ben presto imparerai, la tua padroncina non è molto paziente: io voglio tutto e subito, se ci riesco con le buone va bene … non voglio
rovinare la tua testolina di schiavetto che scrive così delle belle cose e che d’ora in poi lavorerà per soddisfare i miei capricci, ma stai bene attento – aggiunse avvicinando il viso e fissandomi con un sorriso crudele – per farti diventare ubbidiente come io voglio sono disposta a farti qualsiasi cosa, dovessi anche spremerti il cervellino con i miei piedini … Ma so che tu sarai buono; trascorreremo il fine settimana insieme, io, te e le mie pastigliette magiche, e lunedì non ti interesserà più se ti chiamo ‘schiavetto’ dinanzi ad altre persone, perché anzi non ti interesserà più di nessuno tranne che di me e farai senza pensare tutto quello che ti comando".
"Noo …" mi disperai impotente ma Aldina mise fine con uno schiaffo al mio lamento "Sì invece. Non è questo che volevi? L’idea me l’hai data tu, ed io sono la fatina che esaudisce i tuoi desideri" disse ridendo,
poi, seguendo un’improvvisa ispirazione aggiunse: "Tu che sei andato tanto a scuola, non c’era mica una fata che trasformava gli uomini in maiali?".
"Non era una fata, era una maga" risposi in modo confuso.
"E che importa? Io invece sono una fata … e una dea. Guardami, oramai sei già partito, guarda la tua fata Aldina che ti sta per trasformare in un bel porcellino, pronto ad adorarla: adorerai tutto di me, la mia faccia, il mio corpo, le dita dei miei piedini, i buchini profumati che tengo davanti e didietro. Vieni, baciami e supplicami di farti diventare il mio schiavo porcellino.
Devi dirmi: ‘Ti prego fata Aldina, fammi diventare il tuo schiavo porcellino’. Su, avanti" soggiunse, di nuovo giocosa, afferrandomi dietro la nuca e traendomi verso di sé.
Curiosamente mi sembrava di stare osservando la scena dall’esterno, come in un film la cui visione mi stava eccitando sempre più, e di cui non mi sorprendeva essere il protagonista; giunto a pochi centimetri dal viso della mia padroncina incominciai a stolidamente sussurrare l’invocazione suggeritami ed ella ridendo, mutò improvvisamente la trazione spingendo il mio capo verso il basso fino ad affondarlo in mezzo all’umidore delle sue cosce e guidandolo per i capelli per aggiustarne il posizionamento.
"Voglio sentire la lingua del mio schiavetto porcellino" ella disse, mentre fermava la presa girandosi di lato sul sedile, sollevando le gambe ed incrociando le caviglie dietro alla mia schiena: io cominciai a leccarla e supplicarla spasmodicamente senza capire più nulla, mentre Aldina altrettanto spasmodicamente si agitava e gemeva di piacere sempre tenendomi per i capelli.
Infine ella, soddisfatta, mi sollevo il capo rimirando l’ottusità della mia faccia lordata dai residui non ripuliti delle sue secrezioni, si asciugò le parti intime con la mia cravatta e digitò un numero sul telefono dell’auto, mentre mollemente appoggiava ora uno poi l’altro sandalo al cruscotto per sciogliere le stringhe di vernice.
Mentre inebetito osservavo quest’ultime srotolarsi come neri e letali serpenti che scendevano verso le caviglie della mia fatina, l’indelicatezza della donna che avevo fuggito poco prima penetrò nell’abitacolo attraverso l’impianto ‘viva voce’: "Pronto …".
"Ciao mamma, sono Aldina, volevo farti sapere che, come previsto, stasera non rientro" poi, voltatasi verso di me, ordinò "Saluta mia mamma e dille chi sei".
"Buonasera signora – ubbidii con demente prontezza – sono lo schiavetto porcellino di sua figlia, la fata Aldina". Entrambe le donne si misero a ridere di gusto, ed io ero orgoglioso di averle rese contente.
"L’hai impasticcato?" chiese la madre.
"Sì – rispose Aldina – aveva ancora qualche rimorso ed io ho pensato di toglierglielo: lunedì non ne avrà più".
"Dimmi un po’, schiavetto porcellino – disse la donna – ti piace molto mia figlia Aldina".
"Aldina è una dea, e io adoro tutto di lei: la sua faccia, il suo corpo, le dita dei suoi piedini, i b..".
"Fermo lì" intimò Aldina ridendo.
"Bravo schiavetto – replicò la madre – sai cosa devi fare? Domani è sabato, vai in una gioielleria e scegli un regalino giusto per la tua padroncina, poi, se sarai stato bravo, la sera potrete venire qui, usciremo a cena e tu potrai chiedermi la mano .. anzi no, il piedino di mia figlia".
Nello stato confusionale in cui mi trovavo la proposta era ormai troppo lunga e complessa per poterla capire immediatamente, così mi fermai un attimo cercando di trovare la risposta che avrebbe fatto felice la mia fatina.
Il silenzio che ne seguì, durante il quale Aldina mi guardava divertita agitando, ancora appoggiata alla plancia, la gamba da cui pendeva la stringa del sandalo ormai slacciato, fu interrotto dal rumore ovattato della calzatura che, scivolando dal piede, cadeva sul tappetino dell’auto.
Poi ella avvicinò l’estremità con le piccole unghie scure alla mia bocca, che io automaticamente socchiusi lasciando entrare le dita rotonde che subito incominciai a succhiare.
"Adesso non può risponderti mamma, ma mi ha detto che va bene, domani sera alle otto saremo da te. Ciao”.
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